Pinocchio: un pamphlet italiano

Per i tantissimi che hanno letto il “Pinocchio” di Collodi e, per chi non ricordasse la favola, soffermiamoci sul punto che più a che fare con il sistema finanziario del Bel Paese. Come ricorderete, l’imprudente Pinocchio sfugge ai loschi progetti dell’impresario Mangiafuoco, una specie di Lele Mora dell’epoca, grazie all’intervento della provvidenziale onnipresente Buona Fatina dai Capelli Turchini, che, come ogni autorità di controllo italiana, interviene a mettere una pezza sempre dopo che, scoppiato lo scandalo, il naso del bugiardo di turno è cresciuto a dismisura perché racconta più fesserie di quelle che sono scritte in certi libri contabili sottoscritti e controfirmati da notissime aziende di certificazione di bilancio.

Al temporaneamente pentito Pinocchio va alla grande perché Mangiafuoco gli dona un piccolo tesoro di ben cinque zecchini d’oro, un tesoretto che avrebbero potuto alleviare la miserabile vita di un povero falegname che si era dovuto vendere anche la giacchetta lisa e consunta per far studiare lo scapestrato figliolo che, invece, aveva cercato un facile successo sgambettando nel teatro dei pupi insieme ad altri pupi e pupe. Come se un povero contadino, dopo aver speso fino all’ultimo risparmio per mandare la figlia allo IULM di Milano, se la ritrovasse invece nella “Fattoria” televisiva.

Pinocchio, ammaestrato dalla brutta esperienza, se ne dovrebbe tornare diritto, diritto a casa sua, ma, cammin facendo, incontra due gentiluomini, una Volpe zoppa ed un Gatto cieco, – un altro caso di finti invalidi – cui il burattino, vera testa di legno, mostra incautamente il suo tesoretto, così come fanno i pensionati che aprono ai finti tecnici della società del gas e TPS ai politici.

“C’è poco da ridere”, gridò Pinocchio impermalito. “Mi dispiace davvero di farvi venire l’acquolina in bocca, ma queste qui, se ve ne intendete, sono cinque bellissime monete d’oro.”
A questo punto, i due furboni lo convincono a “depositare” il suo denaro in un campo miracoloso dove sarebbe cresciuta rapidamente e rigogliosa una bella pianta di zecchini. E che bel parlar forbito ed interessato usano per convincere quella testa di legno di un burattino! Sembrano i depliant su carta patinata che le aziende distribuiscono prima della quotazione in borsa.
Erano giunti più che a mezza strada, quando la Volpe disse al burattino:
– Vuoi raddoppiare le tue monete? Vuoi tu, di cinque zecchini, farne cento, mille, duemila?
– Magari! E la maniera?
– La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venire con noi.
– E dove mi volete condurre?
– Nel paese dei Barbagianni.
– No, voglio andare a casa mia!
– Vuoi proprio andare a casa tua? Allora vai pure, e tanto peggio per te!
– Tanto peggio per te! – ripeté il Gatto.
– Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dai un calcio alla fortuna.
– Alla fortuna! – ripeté il Gatto.
– I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila.
– Duemila! – ripeté il Gatto.
– Ma com’è mai possibile che diventino tanti? – domandò Pinocchio, a bocca aperta dallo stupore.
– Te lo spiego subito, – disse la Volpe. – Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per esempio uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro, quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno.
– Sicché dunque, – disse Pinocchio sempre più sbalordito, – se io sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti zecchini ci troverei?
– è un conto facilissimo, – rispose la Volpe, – un conto che puoi farlo sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque e la mattina dopo ti trovi in tasca duemila cinquecento zecchini lampanti e sonanti.
– Oh che bella cosa! – gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. – Appena che questi zecchini gli avrò raccolti, ne tengo per me duemila e gli altri cinquecento li darò in regalo a voi altri due.
– Un regalo a noi? – gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. – Dio te ne liberi!
– Te ne liberi! – ripetè il Gatto.
– Noi, – riprese la Volpe, – non lavoriamo per vile interesse: noi lavoriamo per arricchire gli altri.
– Gli altri! – ripetè il Gatto.
– Che brave persone! – pensò dentro di sé Pinocchio: e dimenticandosi lì sul tamburo, del suo babbo, della casacca nuova, dell’Abbecedario e di tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto:
– Andiamo pure. Io vengo con voi.

Lo sciagurato burattino, come la Gertrude di manzoniana, disse di si. E va a finire come doveva finire: il burattino testa di legno finirà derubato dei suoi zecchini ed impiccato ad un albero rinsecchito, finché non arriverà di nuovo la provvidenziale Fatina a salvarlo. Peccato che non ci sia stata una fatina anche per quelle teste di legno che avevano creduto che i bond lattiero caseari fossero di oro zecchino e che le vacche argentine partorissero vitelli d’oro.
Pinocchio è una favola per bambini che forse non è solo una favola ma una profonda, feroce e involontaria(?) satira della società italiana. L’unico esempio di pamphlet della nostra letteratura. Cosa descrive Collodi? La storia di un burattino, ovvero di una testa di legno, di uno nato per farsi manovrare. Di uno che appena mette il naso fuori di casa, invece di andare a scuola, si fa convincere di poter calcare le tavole del palcoscenico dove però gli viene subito presentato il conto: Mangiafuoco che gli annuncia che, dopo averlo usato, lo brucerà per cuocere il suo arrosto.
Non ci vuole molto a riconoscere nel Pinocchio che arde dal sacro fuoco dell’arte le aspiranti veline e i partecipanti ai reality, aspiranti attori e attrici, indossatori e indossatrici, cantanti, ballerini e ballerine, insomma tutti quelli che ardono dal desiderio di sculettare anche davanti al più laido degli impresari per arrivare ad un successo che lambirà pochi e che invece ne brucerà molti. Chissà perché non c’è nessun film che ci racconta come finiscono le indossatrici che non diventano top model o che non riescono ad incastrare un cavaliere del lavoro? Forse sarebbe molto controproducente per il cinema, la TV e tutto il sistema dei media raccontare di quelle ragazzine che passano dal sofà del produttore di B-movie ai cespugli sulla Tiburtina.
Tornando al nostro burattino con i suoi zecchini d’oro. Chi sono i due furboni che gli promettono che, se semina le monete in un certo campo segreto, si ritroverà con un albero pieno zeppo di monete d’oro zecchino? Non ci vuole molto a riconoscere nel gatto e nella volpe alcuni rampanti e poco seri banchieri, finanzieri, faccendieri e promotori finanziari che ti promettono rendimenti tali che giurano potrai abbandonare il lavoro e vivere di rendita per tutta la vita. Su una favolosa barca da 1.2 milioni euro se ascolterai il loro canto melodioso. Potrai mettere il sederino d’oro a bagno nelle acque limpide di Eleuthera o in quelle di Malindi. E, ovviamente, questo senza che loro, i promotori, povere stelle, ci guadagnino se non il giusto per sopravvivere.
Insomma, visto da un punto di vista bancario, chi è Pinocchio se non il risparmiatore sognatore, quello che si crede l’unico furbo, quello che ascolta gattoni e volponi in gessato grigio e pochette nel taschino che gli promettono un futuro da favola, ottenuto senza lavorare e senza studiare?Una condizione che meravigliosamente si avvera nel Paese dei Balocchi dove tutto è permesso e dove perciò c’è una fine certa del nullafacente: diventare un asino che tirerà la carretta fino alla fine dei suoi giorni magari per pagare un mutuo trentennale. Come capita alla massa incolta ed informe di milioni di italiani poco amanti degli studi, ma molto amanti dei bagordi, che hanno chiesto a furor di popolo, ed ottenuto, una scuola di manica larga che non li prepara a niente. E che cosa è il pescecane che inghiotte Geppetto se non il lato oscuro della nostra società: le tangenti, i falsi, l’usura, la malavita, tutto quello che inghiotte anche gli innocenti padri che cercano di salvare i propri figli/burattini scapestrati, nullafacenti e sognatori per i quali si sono fatti sacrifici e debiti?
E questo burattino, simulacro di italiano, in che cosa spera quando vede persa ogni speranza?
Che una fata – la famosa Provvidenza manzoniana, un’azienda straniera, lo Stato – venga a salvarlo dalla catastrofe nella quale lui stesso si è ficcato per non ascoltare quei fastidiosi grilli sapienti.
Mi sembra che questa metafora descriva benissimo la condizione in cui vivono gli italiani: una forma di messianesimo laico, dove si aspetta sempre un uomo della provvidenza che ci liberi dai guai che ci creiamo per inseguire sogni irrealizzabili se non si è “amico dgli amici” o se non si scende a laidi compromessi: ricchezza senza lavoro, lavoro senza fatica, investimenti con altissimi rendimento ma senza rischi e banche che abbiano a cuore soprattutto il futuro dei nostri soldi.

Da dove deriva questa mentalità? Bisogna riandare con la memoria al capolavoro di Ermanno Olmi. “L’albero degli zoccoli” che racconta la miseria estrema di una famiglia di contadini lombardi dell’800, ma sarebbe stato lo stesso se fossero campieri siciliani o massari foggiani perché la miseria era la stessa in tutt’Italia.

Una miseria così profonda da dove siamo usciti da appena 50 anni che però non sono sufficienti a perdere quella mentalità di contadinacci che si credono furbi come Bertoldo e che sono invece più stupidi di Pinocchio come ben dimostrano i numerosi scandali bancari che, dal 1861, anno dell’unità d’Italia, hanno funestato il paese con scadenza quasi regolare come le Olimpiadi.

Unità d’Italia voluta da Cavour per salvare i Savoia dalla bancarotta, la cui colonna sonora, sin dal 1861 è stata un continuo assalto ai risparmi degli italiani da parte di una classe di imprenditori senza soldi, sempre indebitati fino al collo e che, già da allora, cercavano di salvarsi il sederino d’oro con scalate alle banche di cui erano debitori. Finché il disastro non finiva per coinvolgere pure le banche e si invocava il provvidenziale intervento del demiurgo di servizio, la fatina con la bacchetta magica, l’uomo della provvidenza. Allora vedevi capitani coraggiosi, i grandi imprenditori, correre con la strizza la culo dal grande banchiere a chiedere che le banche trasformassero i debiti in azioni oppure, quando il guaio era così grande ed ingestibile anche per gli gnomi del Cordusio, sponsorizzare una qualche resistibile ascesa di politici amici, ovviamente senza guardare al loro colore, che avrebbe avuto come conseguenza quella di scaricare sullo Stato il problema di industrie senza brevetti e senza soldi, banche troppo larghe di manica, e quello drammatico di milioni di lavoratori che si erano illusi che potevano lavorare in Italia e non dover prendere, come era giusto, la via dell’emigrazione da un paese che non potrà mai mantenere tanti italiche teste di legno.

Peste e Corna

Come la Provvidenza manzoniana salva l’onore di Lucia Mondella ed evita le corna a Renzo Tramaglino

Qual è l’opera è impossibile non studiare a scuola? Un’opera che ha un impatto negativo sulla morale dei giovani italiani nella fase della formazione e fa disastri più dei “Simpson” o di “Friends”?

Esatto. I Promessi Sposi. Proprio loro. E di che parlano i Promessi Sposi?
Grattando, grattando l’indigesto mattone del buon don Lisander ci troviamo di fronte ad un’opera altamente diseducativa, una specie di racconto porno soft che dovrebbe servire a catechizzare i giovani, ma che è, in effetti, in termini psicoanalitici, la summa di tutte le nevrosi di Alessandro Manzoni e della sua strana famiglia che ci ha regalato un altro famoso illuso, tale Beccaria Cesare che, sempre per ragioni morali, ci ha impedito di trattare i furboni in gessato grigio come al tempo dell’inquisizione. Allora li vorrei vedere quelli che bazzicano il Broletto/Broglietto davanti ad un energumeno con un gatto a nove code. Quante ne rivelerebbero di porcate bancarie. D’altra parte è bastato che un magistrato con scarpe grosse, cervello fine e modi rudi, mandasse a San Vittore un po’ di gente importante e miracolosamente questi hanno parlato, scritto e fatto pure i disegni (come diceva la buonanima di Massimo Troisi) pur di non rimanere vittime delle voglie omosessuali che imperano nelle carceri.

Cosa racconta lo scrittorone lombardo se non la storia di una specie di potente politicante dell’epoca che vuole, come era d’altra parte, suo diritto secondo i canoni dell’epoca, iniziare ai piaceri della carne una verginella del lago di Como che invece la vorrebbe dare, almeno la prima volta, ad uno sfigato setaiolo qualsiasi, tale Renzo Tramaglino, uno che pare un pre destinato, prima o poi, a portare le corna? E cosa fa la furba verginella pur di non farsi fare la festa da don Rodrigo (e contro la sua convenienza)? Si va a rifugiare a casa di un puttanone, tale Gertrude, la Monaca di Monza, che nelle note a piè pagina di tutte le edizioni dei Promessi Sposi si scopre essere formalmente donna di chiesa ma dedita a numerosi piaceri carnali, il tutto condito con aborti e probabilmente anche con amori saffici. Mi sembra di rivedere quello che succede ogni mese in qualche parte del mondo dove i scoprono le porcate dei preti pedofili. E quando l’allegra badessa non può nascondere i suoi scheletri nell’armadio la verginella è costretta a riparare sotto la protezione di uno che è ancora più fetente e potente di don Rodrigo. Uno così fetente, ma così fetente, che a distanza di 200 anni Manzoni non lo poteva nemmeno nominare. Uno che è tale e quale a quei padroni oscuri del salotto buono finanziario cui si rivolgono i grandi industriali falliti, quando si accorgono che non hanno altra scelta che farsi linciare dai creditori o sparasi un bel colpo di calibro 38 in bocca.

Ecco cosa imparano i nostri giovani: per consentire a Lucia di non doverla dare ad un potente è bene mettersi sotto la protezione di uno ancora più fetente (sperando che non sia pure lui un erotomane), che le pie persone di chiesa pensano solo agli affari loro, nel senso di fare di tutto per tenersi la cadrega di curato o il posto di alto valore economico di badessa del convento, che gli avvocati sono solo manipolatori delle leggi a favore dei potenti e che infine l’unica cosa è sperare che la provvidenza, stimolata dal frate Cristoforo con il suo ditino alzato minacciosamente, con l’alta intercessione del buon cardinale Borromeo (anche lui dimentico delle sospette ricchezze della sua famiglia), faccia scoppiare una bella devastante pestilenza che, mentre si porta all’altro mondo bambini innocenti, lavoratori onesti e madri di famiglia, avrà anche il benefico effetto di riempire di pustole e far morire anche quel cattivone di don Rodrigo che la giustizia umana non è riuscita a fermare. Insomma un’ecatombe di migliaia di milanesi a difesa della verginità di Lucia. Il che è veramente devastante per una giovane coscienza. Forse sarà per questo che oggi molte giovani liceali anticipano un certo tipo di esperienze sessuali alle scuole medie. Vogliono evitare che, per punire il parroco o il prof con le mani lunghe, si scateni un’epidemia purificatrice che ha il piccolo difetto di non guardare in faccia a nessuno.

Ritornando seri, il vero dramma per gli italiani è fissare per sempre nella testa dei giovani che alla fine arriva sempre qualcuno, l’uomo della provvidenza, che aggiusta tutti i casini. Cavour che s’inventa l’unità di Italia per apparare i giganteschi debiti dei Savoia. Mussolini che salva i Savoia dalla rivoluzione rossa del 1921. I carabinieri che arrestano il non più utile Mussolini e danno modo al re travicello di Savoia di squagliarsi sotto l’ala protettiva degli anglo-americani. De Gasperi, con l’assegno americano in bocca, che evita la presa del potere da parte del PCI. I giudici di Milano che salvano, momentaneamente, il paese dalla corruzione. Ciampi che ci porta nell’euro per evitare una bancarotta nazionale. Draghi che sostituisce un incauto e chiacchierone Fazio. Berlusconi che evita il dilagare dei comunisti che, nel frattempo, sono diventati banchieri d’affari che non sanno l’inglese e quindi nemici d’affari.

Insomma l’italica stirpe, da quando ha perso la capacità degli antichi romani di guidare e civilizzare il mondo, è diventata una massa di piagnoni il cui unico motto è “io speriamo che me la cavo” vendendosi al migliore offerente, cedendo, quando serve, la moglie all’occupante di turno di cui diremo peste (e ci terremo le corna), assodato che la fine della seconda guerra mondiale ha mostrato al mondo che gli uomini italiani sono stati molto lesti a fornire madri, moglie, figlie e sorelle agli invasori anglo-americani, anche per una barra di cioccolato, che, in quel momento, era l’unica provvidenza disponibile e che, forse, in qualche modo, ci ha fatto guadagnare in altezza: il fatto che i figli di tanti italiani sono improvvisamente diventati alti e biondi, noi che eravamo neri e bassotti, non potrebbe essere l’effetto dello scambio barretta di cioccolata-onore delle tante Lucie del dopoguerra a spasso sulle jeep dei G.I.?

Quello che però ci rimane di vero e devastante è questo senso di irresponsabilità che ci permette di metterci nei casini più neri, come credere ai Bond Argentini, e poi aspettarci un salvatore qualsiasi che ci renda indietro i nostri zecchini, i sudati risparmi frutto di tanto lavoro e di tantissima evasione fiscale.

Purtroppo, pare che la fabbrica degli uomini della Provvidenza abbia esaurito la produzione di demiurghi e quindi gli italici devono prendere coscienza che “chi la fa la copra pure” perché non c’è più nessuno al mondo disposto a spalare la nostra merda anche perché la nostra cacca, cioè l’andazzo della nostra politica ed il nostro debito pubblico, è diventato così grande che non c’è una pala tanto grande da poter spalare tanta merda.

Però ci potremmo augurare una bella epidemia di aviaria che avrebbe il vantaggio non secondario di eliminare tanti politici, impiegati statali e pensionati, con sistemazione definitiva delle casse dell’erario e degli enti previdenziali. Dobbiamo solo trovare un frate Cristofaro che vada davanti a Montecitorio ad agitare il ditino minacciando che “verrà un giorno”.

Per il momento non ci resta che spiegare alle Lucie ed ai Renzo del terzo millennio che non gli resta che prendere la valigia firmata ed emigrare, perché questo paese non ha più nessuna speranza.

Nemmeno quella nella Provvidenza. Ci sono in giro troppi Innominati che nei loro salotti ovattati esercitano il potere tramite il controllo sui soldi. Ci sono troppi Don Rodrigo, i caporioni a capo dei comuni e delle province che spendono, spandano ed assumono amici, parenti e benefattori. E ci sono tante Monache di Monza e Don Abbondio che continuano a mantenere un ferreo controllo sulle banche con lo scopo non recondito di non permettere al paese di modernizzarsi. Perché modernizzarsi significherebbe liberarsi dell’oppressione culturale che comincia a scuola con lo studio di quel mefitico romanzo porno che è “I Promessi Sposi”.