Doveva succedere ed è successo!

Un’indagine commissionata da CISCO su quale fiducia hanno gli americani nelle banche ha fatto emergere, ovviamente, che la gente non si fida più dei furboni in gessato d’ordinanza e faccia di corno vecchio.

Ma la cosa più interessante è che il 35% degli intervistati ha più fiducia in PayPal che nelle banche.
Wow! Un bel risultato per la macchina dei pagamenti di eBay!

Un fenomeno che per le dimensioni è veramente notevole, tenuto conto che PayPal è nata solo nel 2000, mentre ci sono banche che hanno secoli e secoli di (in)affidabilità!

Per me, personalmente, è una discreta soddisfazione perchè ne avevo parlato ampiamente nel mio libro L’Albero degli Zecchini, un’analisi molto irriverente di quei sepolcri lucidati a cera che sono banche e banchieri.

Imprese nelle banche o banche nelle imprese?

Forse saprete che la casta italica è spesso bacchettata dalla UE perchè non applica subito le direttive europee, salvo qualche caso dove c’è un interesse a fare ambressa, ambressa.

Una di queste è quella che permette una più pesante partecipazione della banche al capitale delle imprese, infatti, la direttiva esaminata dal CICR a luglio vincola gli investimenti nelle imprese con riferimento al patrimonio della banca e non a quello della società partecipata.

Ci risiamo! Tutto si ripropone, come l’onda sulla battigia!

Dalla sciagurata unità in poi, le imprese cercano disperatamente di risolvere i loro problemi di denari andando a trovare gli zecchini d’oro, che non possiedono e non sanno guadagnare, accollando alle banche le proprie industrie cotte e decotte.

Diciamoci la verità: le industrie italiche, salvando la faccia di pochissimi (Armani & C.), sono senza denari e non possono nemmeno cercarli sul mercato per i frequenti scandali alla parmigiana; inoltre, non generano abbastanza valore aggiunto, per pagare tasse, stipendi, capitale e debiti, e quello che producono è di così infimo valore tecnologico che può essere ormai riprodotto anche nel Burkina Faso. Altro che Cina!

Insomma, consentire alla banche di rischiare i soldi dei risparmiatori in imprese boccheggianti, è solo la costruzione di una nuova IRI, diffusa e non statale e, se non è zuppa è pan bagnato, alla fine è sempre la gente comune che ci rimette.

Invece si dovrebbe lasciar operare il processo darwiniano in atto, con la crisi economica che elimina le imprese non adatte; nel contempo, favorire il mondo del Venture Capital che è l’unico che può far nascere nuovo valore aggiunto, da nuove imprese, con nuove idee e, sopratutto, con gente nuova.

Finanza P2P: il fenomeno ZOPA

Al convegno di IDC, “The European IT Banking Forum 2006” le due relazioni più interessanti sono state quelle di Bob Giffords, analista indipendente del settore finanziario, e quella di Tim Parlett, uno dei fondatori di ZOPA, acronimo di Zone Of Possibile Agreement, un luogo sulla Internet dove la gente comune può offrire denaro in prestito ad altra gente normale, che ne ha bisogno, senza dover pagare salatissime intermediazioni alle banche che servono, soprattutto, a pagare i lautissimi stipendi dei banchieri, le stratosferiche parcelle dei loro consulenti ed i lussi megagalattici dei consigli d’amministrazione.

ZOPA è un esempio concreto di quello che Giffords ha descritto, come uno degli scenari futuri a breve termine, ad una platea di banchieri e bancari che si dividevano fra chi non credeva per niente alle parole dell’analista e chi, semplicemente, non aveva capito niente di come si sta evolvendo il pur statico settore finanziario, forzato a darsi una mossa a causa della diffusione delle tecnologie dell’informazione e soprattutto della Internet e del WEB 2.0.

Zopa è il posto dove una persona qualsiasi può chiedere prestiti alla community di chi offre denaro, altra gente normale che ha qualche soldo in più e che vuole far fruttare meglio di quanto gli possa offrire la banca. Il tutto in sicurezza e con grande semplicità perché il modello di ZOPA è un meccanismo che si basa su pochi punti di forza.

Chi cerca un prestito è analizzato da ZOPA utilizzando i dati messi a disposizione dalle centrali rischi e dai sistemi antifrode ed, ottenuta la storia finanziaria di una persona, è possibile ricavarne un grado di affidabilità che ne determina anche il rischio e di consegunza anche il tasso da applicare al suo prestito.

L’altro punto di forza è che il prestito è spalmato sulla platea di persone che offrono denaro e che intendono ricavare un interesse pari a quello che il mutuatario potrà pagare. In questo modo il rischio per ognuno degli offerenti è di poche sterline e quindi con poche probabilità di perdita dell’intero capitale investito. Un prestito di 500 sterline, ad esempio, è spalmato su almeno 50 persone che, al più, rischiano solo 10 sterline.

Il guadagno di ZOPA è una piccola quota per il servizio, che è infinitamente più bassa di tutte le commissioni che di solito si debbono pagare alle esose banche. Per ogni prestito ZOPA trattiene sul capitale prestato una percentuale dello 0,5% (zero virgola cinque) ed un altro 0,5% l’anno lo deve chi concede il prestito.

Due conti della serva: se chiedo 2.000 sterline, il costo per l’operazione è di 10 sterline, che è aggiunto al capitale da restituire. E basta! Dovrò restituire 2.010 sterline, mentre ne ricevo sul c/c bancario 2.000.

Chi presta paga lo 0,5% sul capitale prestato: se uno presta 1.000 sterline ne paga 5 come commissione, per cui, se presta al 7%, guadagna 70 sterline di interessi per ogni anno, da cui deve sottrarre le 5 sterline di commissione, per un totale di 65 sterline di guadagno.

Bello vero? Ma questo è solo l’inizio perché questi meccanismi possono essere facilmente replicati all’interno di quelle che Bob Giffords chiama “nicchie”, cioè comunità di persone che si conoscono, condividono interessi o fanno affari insieme e che possono trovare più conveniente fare transazioni finanziarie fra di loro piuttosto che subire l’intromissione ed i costi delle banche nei loro affari.

Come ha spiegato Tim Parlett è proprio questo il meccanismo che incentiva la gente a servirsi della finanza P2P: chi ha bisogno di un prestito cerca anche comprensione dei suoi bisogni e chi presta denaro non cerca solo il guadagno ma anche un compenso di tipo emozionale. E’ l’effetto eBay: non si partecipa alle aste solo per fare affari ma anche e soprattutto per fare un’esperienza. Fare un’esperienza è oggi l’elemento che, in alcuni casi, fa decidere di pagare un prezzo più elevato perché si riconosce che il caffè bevuto nella Piazzetta di Capri ha un valore molto ad di là del valore intrinseco del caffè anche se, ad onor del vero, solo un caffè preparato da qualsiasi barista sotto alla linea del Garigliano-Liri si può definire un caffè.

Ma ZOPA è anche e soprattutto una comunità ed il piacere di far parte di una community è un potente elemento di interesse, come dimostrano i milioni di gruppi che sono nati insieme ad Internet che è oggi passata alla fase successiva: al Web 2.0, il web della partecipazione, il web dove è l’utente che detta le regole, dove l’utente suggerisce i prodotti. E’ lo stesso effetto che avevano scoperto da tempo gli stilisti: sono le persone che fanno lo stile ed il lavoro del creativo è essenzialmente osservare lo streetwear, cioè quello che si porta, quello che la ragazzine inventano per sottolineare i loro corpi che sono molto diversi da quelli delle madri. Il compito dello stilista è quello di rielaborarlo in prodotti più fascinosi e, ovviamente molto più costosi perché branded. Nel settore della moda siamo già al Dress 2.0 dove il cliente fornisce l’input. Borse da donna con manici molto corti per portarle a giro manica per non essere scippate ed occhiali avvolgenti scuri per difendersi dalle luci stroboscobiche delle discoteche sono le cose nate dall’osservazione della vita di tutti i giorni.

Ma l’appartenenza ad una community non è il solo e nemmeno il più importante elemento perché giocano anche potenti forze psicologiche come: il voler rendersi utili agli altri (sindrome del boy scout), il piacere di aver fatto un affare (l’affarista), ed anche quello ancora più potente di fottere le banche (il graffitaro). Tutte sindromi umane di esseri umani che vorrebbero essere trattati, anche dalle paludatissime e laccatissime banche, come persone e non come numeri di conto da prosciugare mediante fantasiose commissioni che alla fine sono percepite, né più né meno, come un pizzo camorristico che non è per niente una bella esperienza.

ZOPA è un classico effetto long-tail: molti piccoli prestiti generano tante piccole commissioni che alla fine sono più consistenti in volume di grandi commissioni su prestiti anch’essi molto grandi che però implicano anche rischi più grandi. Un metodo da applicare molte altre situazioni bancarie dove, ad esempio, si potrebbero dare micro prestiti a basso interesse che, come dimostra l’esperienza di Yunos, il banchiere dei poveri, hanno alti tassi di ritorno. In parole povere: meglio tante uova domani che tirare il collo alla gallina oggi come fanno invece i signori delle carte revolving o quelli che adeguano automaticamente il tasso dei mutui alle incomprensibili manovre della BCE, un’altra istituzione che si illude di guidare un’economia complessa come quella di EU-27, con la sola leva del cambio.

Come pilotare un Jumbo con il joystick della Playstation.

No Brand? No party!

Il settore finanziario italiano è uno dei più lenti nell’adattarsi ad un mondo che è fondamentalmente guidato e dominato dal brand. Per quanto Naomi Klein si possa far venire crisi isteriche e sturbi vari, il brand ed i suoi elementi costitutivi (fra cui il famigerato ed odiato logo) è ancora oggi, e lo sarà a lungo, il maggior veicolo di attrazione e fidelizzazone del cliente. Questo perchè il brand riassume in maniera iconica una serie di punti di forza che sono alla base delle scelte del consumatore che, a differenza di quanto pensano tanti, sono quasi sempre scelte per niente ragionate ma molto più decise in modo automatico o, molto al limite, in modo semi automatico.

D’altra parte l’origine stessa di brand (etimo di “torcia” e per traslato “marchio impresso a fuoco”) deriva dalla necessità di quei pittoreschi ubriaconi scozzesi di essere certi che il whisky, di quello buono invecchiato 12 anni come piace a Michele, fosse quello sul quale il produttore avesse impresso il proprio logo e certificato così il prodotto. In una taverna scozzese, alla luce fioca delle torce, e con la vista annebbiata dai fumi dell’alcol, il consumatore in kilt indicava la botte con quel logo e così si risolvevano anche pericolose dispute che potevano finire a colpi di claymore, le pesanti spade che ogni buon selvaggio scozzese portava sempre con se finché i loro più selvaggi cugini inglesi non li fecero a pezzi nella battaglia di Culloden Moore dove ogni velleità indipendentista si squagliò come neve al sole dopo che i dragoni inglesi passarono casa per casa e uccisero vecchi, donne, bambini. E Handel, dietro compenso, of course, compose l’oratorio “Judas Maccabaeus” in onore del Duca di Cumberland che è sicuramente fra gli avi di quegli raffinati banchieri della City che non fanno sconti quando si tratta di massacrare le aziende avversarie. Meditate gente, meditate: dietro ad ogni laureato a Cambridge c’è sempre qualcuno i cui antenati scannavano feriti scozzesi a Culloden Moore il 16 aprile del 1746, cioè appena 260 anni fa.

Dato agli inglesi quello che gli spetta, ritorniamo al brand ed alle ragioni della sua importanza anche per le banche. La forza del brand sta nel fatto che anche oggi il consumatore non ha tempo per districarsi nella bolgia continua di comunicazione istituzionale e pubblicitaria da cui viene continuamente bombardato. In questo frastuono deve comprendere nella numerosa offerta, e per ogni settore economico, qual è il meglio per se, ed in questo tentativo di uscire con un suo vantaggio dalla foresta di messaggi la strada più semplice è quella di dare fiducia a quei marchi che “emozionalmente” gli ispirano fiducia. Perché in un paese in via di sviluppo è meglio bere una CocaCola piuttosto che una qualsiasi Local Cola? Perché “a naso” sappiamo che anche l’imbottigliatore locale della Coca Cola deve rispettare severe regole imposte da Atlanta che sicuramente non vuole perdere ne i consumatori ne la faccia, cioè la forza del suo brand.

Perché un brand deve soprattutto dare fiducia al cliente, fiducia che il prodotto/servizio fornito sia in linea con le sue aspettative e con le promesse che il fornitore fa implicitamente. Chi compra Mercedes o BMW si aspetta una certa qualità di prodotto e la sua scelta fra due prodotti simili dipenderà solo dal messaggio emozionale che il prodotto gli ispirerà. Ovviamente il prodotto deve avere le qualità per competere ma è stato ampiamente dimostrato che fra prodotti simili il consumatore sceglie quello che gli trasmette fiducia, affidabilità e, strano a dirsi, che gli racconti una storia. E qui le banche italiane stanno messe moto male perché di storie, nel senso di monster balls ne hanno raccontate tante ai loro clienti che invece vorrebbero che il loro marchio raccontasse una storia di successo, che il loro brand bancario sia rappresentato da AD presentabili, gente che sa portare bene lo smoking, con una bella famiglia, che sappiano stare lontano dagli scandali, insomma qualcuno in cui identificarsi e non l’impiegata con due belle mezzelune di sudore sotto alle braccia, i capelli sporchi e l’aria che piuttosto che pensare al tuo danaro sta pensando che non si è ancora potuta cambiata l’assorbente.

Questo vale sempre e spiega perché la classifica dei top brand vada di pari passo con le fortune aziendali, tanto che esistono valutazioni di quanto vale un marchio in termini economici e non sorprende che i brand che valgono di più sono anche quelli delle aziende che sono al top delle classifiche generali e di settore.
E’ stato provato che avere un brand conosciuto dai consumatori, anche nel settore finanziario, è un elemento che dice immediatamente se la banca funziona meglio dei competitori perché una banca con un brand che abbia un valore funzionale ed emozionale fornisce ai suoi stake holders una promessa di efficacia ed efficienza, soprattutto se il brand serve a condividere una stessa identità. In parole povere un brand diventa un’icona, una bandiera di un’azienda di cui si è orgogliosi di fare parte come cliente, dipendente ed azionista. Qualcosa di lievemente irrazionale che, alla fine, somiglia molto all’amore perché è proprio questo l’effetto finale di un brand: suscitare amore verso l’azienda. Un amore che deve continuamente ravvivato ed essere diffuso in tutta l’organizzazione e che di solito è sintetizzata in uno slogan aziendale, la tagline che appare sui siti delle aziende di successo “Your potential. Our passion” è la tagline di Microsoft. “You & Us” quella di UBS, “The world local bank” quella di HSBC, “La banque du un monde qui change” quella di BNP Paribas.

Al contrario nelle nostre banche di solito è molto difficile trovare una frase che descriva sinteticamente l’essenza dell’azienda. Anche un dipendente di vecchia data non riesce a dare con un immagine semplice, immediata e pregnante l’essenza della sua azienda. D’altra parte è comune esperienza sentire l’impiegato allo sportello che smoccola sull’azienda che gli sta pagando lo stipendio, le rate della macchina, il mutuo e la scuola di pianoforte della figlia con velleità artistiche. Ma d’altra parte che fanno le aziende finanziarie per pompare il brand? Assolutamente niente o, quando lo fanno, si danno da fare con soluzioni fatte in casa come quella banca che aveva scelto un logo veramente orrendo, senza senso ed anche fuori contesto che però aveva il pregio di piacere all’AD che ha imposto che quella schifezza troneggi su tutte le agenzie della banca anche se aveva lo sgradito secondario effetto di dare fastidio agli automobilisti perché le sue luci multicolori si confondeva con i semafori.
E se volete toccare con mano un esempio di totale ignoranza del valore del brand nelle banche italiane lo si può sperimentare in maniera molto semplice su Internet.

Premettiamo che, con pochi soldi, frazioni infinitesime dei costi di una banca, è possibile far digitare un nome internet senza il www iniziale e questo per agevolare il navigatore, ma anche perché l’azienda ha contezza del fatto che il suo è un brand affermato e conosciuto. Provate a digitare ibm.com o cocacola.com o uno qualsiasi dei global brand e sarete portati sul sito istituzionale dell’azienda. Ovviamente funziona anche ibm.it o xerox.it perché il www è roba per il sito di una paninoteca. Se ne accorto anche Beppe Grillo che può essere raggiunto a beppegrillo.it.

Provare anche: hsbc.com, bankofamerica.com, barclays.com, bnpparibas.com, socgen.com, abnamro.com, citi.com, deutschebank.com, rbs.com, jpmorgan.com, morganstanley.com, ubs.com, ing.com, creditagricole.com, abbeynational.com Funziona! E qualcuno ha anche comprato i siti .eu.

Ora fate la stessa prova con le maggiori banche italiane. Unicredit.com non esiste, capitalia.com è stato scippato da uno più lesto di Geronzi. Intesasanpaolo.com non esiste. Ma non esiste nemmeno intesa.com, mentre sanpaolo.com porta ad una pagina anonima dove qualcuno si scusa del disagio. Generali.com non esiste, generali.eu parla di generali e di battaglie e mediobanca.com porta ad un sito che tratta oro che è abbastanza vicino alle attività bancarie ma non è la Mediobanca. Unipol.com appartiene ad altri. Ubibanca.com non esiste. Alcuni nomi sono addirittura liberi e possono essere comprati: una bella pacchia per i phisher.

Che significa tutto ciò? Semplicemente che, in generale, le banche italiane non hanno alcun attenzione al brand, il che potrebbe voler anche dire che loro dei loro stake holders non se ne fottono assolutamente niente. Basta che, come quel fesso di Pinocchio, portino in banca gli zecchini e poi, se lui vuole trovarci via web o via call center, è un fatto assolutamente secondario e neppure da incoraggiare perché il cliente è solo un grosso fastidio che distoglie dalla impellente necessità di andare a cazzegiare al bar di fronte.