I limiti (attuali) delle AI

Attenzione al nonsense coerente

Molti parlano oggi, 2023, di AI. Spesso a vanvera, senza conoscenze di base, e solo perché ci hanno smanettato un po’, e come gli indiani che vendettero l’isola di Manhattan agli olandesi per $24 dollari di paccottiglia, si fanno affascinare da perline e specchietti (per le allodole).

Le AI, quindi, non servono? Le AI non mantengono le promesse di un mondo dove ci potremo finalmente liberare del lavoro (che è poi una punizione biblica: ” Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra”)?

Le AI possono eliminare il lavoro, con tutte le conseguenze positive in termini di allargare il benessere, come hanno fatto la scienza, la tecnica e l’organizzazione negli ultimi 300 anni.

Ma siamo già a quel punto? Non proprio. Perché se parliamo di sistemi esperti, che – a migliaia – sono installati nelle grandi organizzazioni da decenni, sicuramente funzionano e sono molto produttivi, anche se la maggior parte della gente non li vede all’opera, ma ne subisce gli effetti, come quando chiedete un mutuo, un prestito o una carta di credito.

Ma aiutano anche nella determinazione di guasti di apparati complessi, come un aereo o un locomotore, e sono anche a bordo degli aerei per pilotarli, e anche nella vostra automobile.

Quindi, un automa, che sia il robot che salda le lamiere di una BMW o che sia un software che analizza il vostro merito creditizio per darvi un prestito, sono utili e indispensabili, a meno che uno non sia un imprenditore marginale che s’illude di poter continuare un’attività pagando poco o niente degli schiavi umani. Cosa purtroppo non infrequente.

Allora cos’è tutta quest’enfasi, questa frenesia sulle nuove AI?

Effettivamente c’è una novità: le AI generative, cioè applicazioni, che sono state riempite di miliardi di dati – miliardi di dati che oggi sono disponibili, perché quasi tutto lo scibile umano è stato digitalizzato, ma non tutto – e che permettono all’applicazione di fare delle cose molto sofisticate, che meravigliano per la loro capacità di imitare quello che farebbe una persona, che, alla fine della fiera, fa un lavoro meccanico che può essere imitato da una macchina.

Il problema dell”entusiasmo eccessivo è che chi fa le domande o pone dei compiti ad una AI generativa, è una persona limitata, che fa domande banali.

Provate a fargli delle domande, neppure troppo complesse, e non sarà capace di rispondere, neppure come farebbe Google alla stessa domanda, cioè con una lista di cose, che spesso non c’entrano, o vengono fuori nei primi posti perché qualcuno ha pagato.

Ho fatto una domanda banale per qualsiasi essere umano, che dovrebbe rispondere o “non lo so”, o dare la risposta giusta, o se ha dei dubbi, chiedermi un chiarimento.

La domanda posta era. “in quanti metri atterra un greyhound?”


Ho fatto la domanda a Google, che tira fuori la solita lista – poco utile – dove si deve fare un ulteriore ricerca “manuale” per cercare la notizia.

Alla stessa domanda, ChatGPT ammette di non sapere.


Mentre Bing AI fornisce due risposte perché non sa se la mia domanda riguarda un greyhound animale, cioè un levriero o un Grumman C-2 Greyhound, cioè un areo imbarcato sulle portaerei americane e francesi, che era la risposta che mi serviva.


Quindi Bing AI è più brava, ma non molto efficiente! Perché se chiedo “in quanti metri atterra un greyhound?”, qualsiasi persona che sappia cosa sia un greyhound cane o un greyhound aereo, darebbe subito la risposta relativa alla lunghezza della pista necessaria per far atterrare un Grumman C-2.

Qualche Pierino potrebbe dire che magari se avessi chiesto “in quanti metri atterra un Greyhound?” avrei fatto una domanda semanticamente e grammaticalmente corretta. Ma se parlo di “atterrare” è normale che una entità capisca che i levrieri non atterrano mentre gli aerei di solito si, e quando parliamo, non mettiamo le maiuscole.

Non è una demolizione di questi strumenti, ma un avvertimento che quello che si ha di fronte è un idiot savant, e non un savant e basta. E quindi, è meglio prendere le risposte cum grano salis, cioè aggiungendo quello che è ancora umano e solo umano: il discernimento. E quindi non fidarsi completamente delle risposte delle AI generative, come spiega anche il MIT perché questo tipo di AI possono generare un nonsense coerente cioè qualcosa che sembra razionale, ma che non lo è quando la si esamina con discernimento e conoscenza dell’argomento, e che può essere stato indotto da una persona che non conosce l’argomento e quindi induce la macchina a dare belle risposte ma che sono senza senso.

Ricchi e morituri

Vecchiette e computer

La notizia curiosa del momento è che Sergey Brin, uno dei fondatori di Google, – uno che a 41 anni possiede 24 miliardi di dollari, una cifra che gli permetterebbe di spendere (senza lavorare) 400 milioni di dollari ogni anno, cioè più di un milione di dollari ogni giorno – ha un problema che, ahimè, affligge noi tutti: prima o poi dovrà morire.

Come tutti. Come è morto Steve Jobs e come è morto Don Verzè, il prete affarista che prometteva a Berlusconi l’immortalità.

E sí! Dev’essere proprio terribile essere ricchi sfondati e sapere che, prima o poi, una caduta per le scale, la cacarella o il catarro ti rendono uguali uguali agli altri: un mucchietto d’ossa su cui la gente piangerà tre giorni per poi passare alle liti per dividersi l’eredità.

Cosí il ricco talentuoso Brin, invece di aiutare con la sua ricchezza quei tanti bimbi che muoiono di fame e malattie, ha pensato bene di finanziare la ricerca biologica per diventare immortale, o almeno vivere un poco in più di quanto è già scritto nei suoi cromosomi.

Ma cosa accadrebbe se veramente alcuni potessero vivere più a lungo di altri o addirittura diventare immortali?

Ce l’ha descritto Robert Heinlein nel romanzo “I figli di Matusalemme” dove mostra la vita da incubo di coloro che possono vivere centinaia di anni in un mondo dove tutti gli altri crepano, prima o poi.

Praticamente devono nascondere al mondo questo loro privilegio, perché non ci sarebbe invidia più grande di chi vede una persona cara morire mentre il vicino di casa passa allegramente (e in buona salute) i duecento e passa anni di età.

E poi c’è il problema che uno può anche diventare immortale, ma come vive chi sa che la sua immortalità non è invulnerabilità?

Cosa farebbe uno che sa che la sua immortalità è a rischio di un incidente di auto, di una banale caduta sugli sci o di prendersi un virus mortale?

Diventerebbero tutti come Howard Hughes, il miliardario che visse recluso per anni per paura di essere toccato?

Al momento possiamo solo ipotizzare quello che forse un giorno accadrà. Dobbiamo solo sperare ci arriveranno preparati, come singoli e come società, cosi come Brin e gli altri miliardari dovrebbero prepararsi alla loro inevitabile morte e godersi, intanto, i 60 anni che gli restano, magari impegnando il loro talento e il loro denaro per alleviare le sofferenze giornaliere di tanti altri comuni mortali che chiedono solo una vita migliore, anche se a termine.