Yellowstone, 1923 e 1883

La scoperta degli americani

Yellowstone è una prolifica serie di 5 stagioni e 47 episodi, – trasmessa da Sky Atlantic e Now TV, e oggi da Paramount Network – che racconta le vicende complesse dei Dutton, una famiglia di allevatori con un ranch nel Montana (un ranch grande come una nostra provincia), in perenne conflitto con costruttori e minatori, nonché dagli indiani della vicina riserva, e dai problemi di convivenza con il parco omonimo, quello che ospita una delle più grandi caldere del pianeta, capace, il giorno della sua eruzione, di condannare la Terra ad anni di freddo e fame, come potrebbe fare anche la caldera dei Campi Flegrei (Napoli), spesso invocata sui campi di calcio come sterminatore di napoletani da certi schiocchini che ignorano che sarebbero anch’essi ricoperti di strati e strati di materiale vulcanico ove mai i loro auspici si avverassero.

Una serie che si svolge ai nostri giorni, con il patriarca, John Dutton (Kevic Costener) che alterna cavallo ed elicottero, vista la vastità dei possedimenti che ha ereditato dai suoi antenati e fondatori del ranch.

Fondatori la cui storia viene narrata in due prequel, il primo è “1883″, che narra la migrazione interna di James Dutton, un ex ufficiale sudista, sconfitto, che abbandona il Tennessee con la sua famiglia per andare verso Ovest, verso le terre vergini dell’Oregon, del Montana, oltre le grandi pianure, che come dice Elsa, sua figlia, non sono un posto dove si può vivere, e dove vivevano solo i Comanche, nutrendosi dei bisonti che vagavano nel mare d’erba e sterpi delle Great Plains

L’altra serie è “1923”, con Helen Mirren ed Harrison Ford, e parla di lotte di contro coloro che vogliono impadronirsi di quello che era stato costruito negli anni precedenti dai Dutton, soprattutto da chi vuole violare la terra per scavarci l’oro e altri minerali.



Quella più interessante da un punto di vista antropologico è “1884” perché – come è stato detto da più parti – mostra la lotta tremenda, a volte tragica dei migranti verso l’Ovest, il famoso Far West dei film western, che c’è anche quì, con la sua violenza, la prepotenza di chi vuole togliere agli altri quel poco che ha, e quindi anche la speranza, che deve essere difesa con altrettanta ferocia in un luogo dove la legge non esisteva ancora o era in formazione.

Ma c’è anche la violenza di un continente molto diverso da quello da cui vengono i migranti tedeschi e slavi scappati da un’Europa dove vige ancora il servaggio, che impedisce anche di poter fare un bagno in un fiume, a chi deve solo obbedire e spaccarsi la schiena per un signorotto locale.

Tutto è raccontato con estrema crudezza: la violenza degli uomini, la violenza della natura, le difficoltà e la morte in agguato in un ambiente sconosciuto dove erbe malefiche e serpenti a sonagli sono in agguato, le lotte intestine al gruppo di migranti, che deve condividere lo stesso percorso, perché andare da soli e andare verso il nulla.

Ecco, oltre la storia narrata, che ha momenti anche di vero lirismo, come quando Elsa, la figlia 18enne di James Dutton, di fronte all’ennesimo conto presentato dalla natura selvaggia delle Great Plains, dice “per quanto uno possa amare la terra (the land), la terra non ti ricambierà mai” come sa ognuno che di terra vive, e come dovremmo capire noi che non solo non amiamo la Terra, ma la violentiamo bene sapendo che Lei, Gaia, non solo non ci ricambia nè con odio né con amore, ma se decide di farlo, può annichilirci con tornado, terremoti, eruzioni, onde che spazzano fuscelli di migranti, come in “1833” spazza via cose e vite di chi ha attraversato l’Europa, si è imbarcato per l’America e cerca disperatamente di avere un suo pezzo di terra da coltivare, arare, usare come pascolo, padrone sulla sua terra, pronto a difenderla con le armi.

Quando pensiamo agli americani, un popolo che esiste da poche centinaia di anni, dovremmo traguadare le loro azioni attraverso questa battaglia per colonizzare una terra ostile, feconda ma matrigna, dove la violenza di altri che non vogliono costruire, ma appropriarsi degli altri, viene ripagata con altrettanta violenza.

E lo dovrebbero fare anche quelli come i cinesi, i russi, gli iraniani che pensano che potrebbero osare anche di lanciare un paio di atomiche su qualche popolosa città americana, sicuri che poi gli americani, terrorizzati non osino lanciare una rappresaglia con armi conosciute e forse con quelle che nessuno conosce.

Non per niente, nell’iconografia rivoluzionaria americana c’è la Godsden Flag, che mostra un crotalo pronto a colpire, ed il motto “”DONT TREAD ON ME”, cioè “non calpestarmi”, (perché il serpente ti attaccherà in risposta).

Milioni di persone sono andate via dall’Europa perché erano calpestate, hanno cercato con sofferenza un posto dove essere “lasciate in pace”, come ha scritto William Faulkner in “Privacy” dove spiega che il “sogno americano” era di essere lasciati da soli, sia come singoli, sia come nazione, “difesi da due oceani, da una ghiaccia a nord e da un deserto a sud” (Otto von Bismark).

Ma, a cominciare dagli inglesi, per passare poi per i pirati barbareschi del nord Africa, per poi coinvolgerli in due guerre mondiali, continuando con il massacro del 9/11, pare che gli altri non vogliono capire che è meglio non andare a mettere le mani sotto alle pietre, perché ci puoi trovare un crotalo o un’arma che neppure immagini che potesse esistere.

A qualcuno non piace? Basta non immischiarsi nella loro vita, né coinvolgerli nelle vostre.

Resta però il fatto che è la nazione più avanti in ogni settore della scienza e della tecnica, che stabilisce i fenomeni mainstream, ed è ancora oggi il posto dove si può realizzare un progetto, perché c’è altra gente che ammira chi riesce e da una mano a chi da una mano,