Finanza P2P: il fenomeno ZOPA

Al convegno di IDC, “The European IT Banking Forum 2006” le due relazioni più interessanti sono state quelle di Bob Giffords, analista indipendente del settore finanziario, e quella di Tim Parlett, uno dei fondatori di ZOPA, acronimo di Zone Of Possibile Agreement, un luogo sulla Internet dove la gente comune può offrire denaro in prestito ad altra gente normale, che ne ha bisogno, senza dover pagare salatissime intermediazioni alle banche che servono, soprattutto, a pagare i lautissimi stipendi dei banchieri, le stratosferiche parcelle dei loro consulenti ed i lussi megagalattici dei consigli d’amministrazione.

ZOPA è un esempio concreto di quello che Giffords ha descritto, come uno degli scenari futuri a breve termine, ad una platea di banchieri e bancari che si dividevano fra chi non credeva per niente alle parole dell’analista e chi, semplicemente, non aveva capito niente di come si sta evolvendo il pur statico settore finanziario, forzato a darsi una mossa a causa della diffusione delle tecnologie dell’informazione e soprattutto della Internet e del WEB 2.0.

Zopa è il posto dove una persona qualsiasi può chiedere prestiti alla community di chi offre denaro, altra gente normale che ha qualche soldo in più e che vuole far fruttare meglio di quanto gli possa offrire la banca. Il tutto in sicurezza e con grande semplicità perché il modello di ZOPA è un meccanismo che si basa su pochi punti di forza.

Chi cerca un prestito è analizzato da ZOPA utilizzando i dati messi a disposizione dalle centrali rischi e dai sistemi antifrode ed, ottenuta la storia finanziaria di una persona, è possibile ricavarne un grado di affidabilità che ne determina anche il rischio e di consegunza anche il tasso da applicare al suo prestito.

L’altro punto di forza è che il prestito è spalmato sulla platea di persone che offrono denaro e che intendono ricavare un interesse pari a quello che il mutuatario potrà pagare. In questo modo il rischio per ognuno degli offerenti è di poche sterline e quindi con poche probabilità di perdita dell’intero capitale investito. Un prestito di 500 sterline, ad esempio, è spalmato su almeno 50 persone che, al più, rischiano solo 10 sterline.

Il guadagno di ZOPA è una piccola quota per il servizio, che è infinitamente più bassa di tutte le commissioni che di solito si debbono pagare alle esose banche. Per ogni prestito ZOPA trattiene sul capitale prestato una percentuale dello 0,5% (zero virgola cinque) ed un altro 0,5% l’anno lo deve chi concede il prestito.

Due conti della serva: se chiedo 2.000 sterline, il costo per l’operazione è di 10 sterline, che è aggiunto al capitale da restituire. E basta! Dovrò restituire 2.010 sterline, mentre ne ricevo sul c/c bancario 2.000.

Chi presta paga lo 0,5% sul capitale prestato: se uno presta 1.000 sterline ne paga 5 come commissione, per cui, se presta al 7%, guadagna 70 sterline di interessi per ogni anno, da cui deve sottrarre le 5 sterline di commissione, per un totale di 65 sterline di guadagno.

Bello vero? Ma questo è solo l’inizio perché questi meccanismi possono essere facilmente replicati all’interno di quelle che Bob Giffords chiama “nicchie”, cioè comunità di persone che si conoscono, condividono interessi o fanno affari insieme e che possono trovare più conveniente fare transazioni finanziarie fra di loro piuttosto che subire l’intromissione ed i costi delle banche nei loro affari.

Come ha spiegato Tim Parlett è proprio questo il meccanismo che incentiva la gente a servirsi della finanza P2P: chi ha bisogno di un prestito cerca anche comprensione dei suoi bisogni e chi presta denaro non cerca solo il guadagno ma anche un compenso di tipo emozionale. E’ l’effetto eBay: non si partecipa alle aste solo per fare affari ma anche e soprattutto per fare un’esperienza. Fare un’esperienza è oggi l’elemento che, in alcuni casi, fa decidere di pagare un prezzo più elevato perché si riconosce che il caffè bevuto nella Piazzetta di Capri ha un valore molto ad di là del valore intrinseco del caffè anche se, ad onor del vero, solo un caffè preparato da qualsiasi barista sotto alla linea del Garigliano-Liri si può definire un caffè.

Ma ZOPA è anche e soprattutto una comunità ed il piacere di far parte di una community è un potente elemento di interesse, come dimostrano i milioni di gruppi che sono nati insieme ad Internet che è oggi passata alla fase successiva: al Web 2.0, il web della partecipazione, il web dove è l’utente che detta le regole, dove l’utente suggerisce i prodotti. E’ lo stesso effetto che avevano scoperto da tempo gli stilisti: sono le persone che fanno lo stile ed il lavoro del creativo è essenzialmente osservare lo streetwear, cioè quello che si porta, quello che la ragazzine inventano per sottolineare i loro corpi che sono molto diversi da quelli delle madri. Il compito dello stilista è quello di rielaborarlo in prodotti più fascinosi e, ovviamente molto più costosi perché branded. Nel settore della moda siamo già al Dress 2.0 dove il cliente fornisce l’input. Borse da donna con manici molto corti per portarle a giro manica per non essere scippate ed occhiali avvolgenti scuri per difendersi dalle luci stroboscobiche delle discoteche sono le cose nate dall’osservazione della vita di tutti i giorni.

Ma l’appartenenza ad una community non è il solo e nemmeno il più importante elemento perché giocano anche potenti forze psicologiche come: il voler rendersi utili agli altri (sindrome del boy scout), il piacere di aver fatto un affare (l’affarista), ed anche quello ancora più potente di fottere le banche (il graffitaro). Tutte sindromi umane di esseri umani che vorrebbero essere trattati, anche dalle paludatissime e laccatissime banche, come persone e non come numeri di conto da prosciugare mediante fantasiose commissioni che alla fine sono percepite, né più né meno, come un pizzo camorristico che non è per niente una bella esperienza.

ZOPA è un classico effetto long-tail: molti piccoli prestiti generano tante piccole commissioni che alla fine sono più consistenti in volume di grandi commissioni su prestiti anch’essi molto grandi che però implicano anche rischi più grandi. Un metodo da applicare molte altre situazioni bancarie dove, ad esempio, si potrebbero dare micro prestiti a basso interesse che, come dimostra l’esperienza di Yunos, il banchiere dei poveri, hanno alti tassi di ritorno. In parole povere: meglio tante uova domani che tirare il collo alla gallina oggi come fanno invece i signori delle carte revolving o quelli che adeguano automaticamente il tasso dei mutui alle incomprensibili manovre della BCE, un’altra istituzione che si illude di guidare un’economia complessa come quella di EU-27, con la sola leva del cambio.

Come pilotare un Jumbo con il joystick della Playstation.

No Brand? No party!

Il settore finanziario italiano è uno dei più lenti nell’adattarsi ad un mondo che è fondamentalmente guidato e dominato dal brand. Per quanto Naomi Klein si possa far venire crisi isteriche e sturbi vari, il brand ed i suoi elementi costitutivi (fra cui il famigerato ed odiato logo) è ancora oggi, e lo sarà a lungo, il maggior veicolo di attrazione e fidelizzazone del cliente. Questo perchè il brand riassume in maniera iconica una serie di punti di forza che sono alla base delle scelte del consumatore che, a differenza di quanto pensano tanti, sono quasi sempre scelte per niente ragionate ma molto più decise in modo automatico o, molto al limite, in modo semi automatico.

D’altra parte l’origine stessa di brand (etimo di “torcia” e per traslato “marchio impresso a fuoco”) deriva dalla necessità di quei pittoreschi ubriaconi scozzesi di essere certi che il whisky, di quello buono invecchiato 12 anni come piace a Michele, fosse quello sul quale il produttore avesse impresso il proprio logo e certificato così il prodotto. In una taverna scozzese, alla luce fioca delle torce, e con la vista annebbiata dai fumi dell’alcol, il consumatore in kilt indicava la botte con quel logo e così si risolvevano anche pericolose dispute che potevano finire a colpi di claymore, le pesanti spade che ogni buon selvaggio scozzese portava sempre con se finché i loro più selvaggi cugini inglesi non li fecero a pezzi nella battaglia di Culloden Moore dove ogni velleità indipendentista si squagliò come neve al sole dopo che i dragoni inglesi passarono casa per casa e uccisero vecchi, donne, bambini. E Handel, dietro compenso, of course, compose l’oratorio “Judas Maccabaeus” in onore del Duca di Cumberland che è sicuramente fra gli avi di quegli raffinati banchieri della City che non fanno sconti quando si tratta di massacrare le aziende avversarie. Meditate gente, meditate: dietro ad ogni laureato a Cambridge c’è sempre qualcuno i cui antenati scannavano feriti scozzesi a Culloden Moore il 16 aprile del 1746, cioè appena 260 anni fa.

Dato agli inglesi quello che gli spetta, ritorniamo al brand ed alle ragioni della sua importanza anche per le banche. La forza del brand sta nel fatto che anche oggi il consumatore non ha tempo per districarsi nella bolgia continua di comunicazione istituzionale e pubblicitaria da cui viene continuamente bombardato. In questo frastuono deve comprendere nella numerosa offerta, e per ogni settore economico, qual è il meglio per se, ed in questo tentativo di uscire con un suo vantaggio dalla foresta di messaggi la strada più semplice è quella di dare fiducia a quei marchi che “emozionalmente” gli ispirano fiducia. Perché in un paese in via di sviluppo è meglio bere una CocaCola piuttosto che una qualsiasi Local Cola? Perché “a naso” sappiamo che anche l’imbottigliatore locale della Coca Cola deve rispettare severe regole imposte da Atlanta che sicuramente non vuole perdere ne i consumatori ne la faccia, cioè la forza del suo brand.

Perché un brand deve soprattutto dare fiducia al cliente, fiducia che il prodotto/servizio fornito sia in linea con le sue aspettative e con le promesse che il fornitore fa implicitamente. Chi compra Mercedes o BMW si aspetta una certa qualità di prodotto e la sua scelta fra due prodotti simili dipenderà solo dal messaggio emozionale che il prodotto gli ispirerà. Ovviamente il prodotto deve avere le qualità per competere ma è stato ampiamente dimostrato che fra prodotti simili il consumatore sceglie quello che gli trasmette fiducia, affidabilità e, strano a dirsi, che gli racconti una storia. E qui le banche italiane stanno messe moto male perché di storie, nel senso di monster balls ne hanno raccontate tante ai loro clienti che invece vorrebbero che il loro marchio raccontasse una storia di successo, che il loro brand bancario sia rappresentato da AD presentabili, gente che sa portare bene lo smoking, con una bella famiglia, che sappiano stare lontano dagli scandali, insomma qualcuno in cui identificarsi e non l’impiegata con due belle mezzelune di sudore sotto alle braccia, i capelli sporchi e l’aria che piuttosto che pensare al tuo danaro sta pensando che non si è ancora potuta cambiata l’assorbente.

Questo vale sempre e spiega perché la classifica dei top brand vada di pari passo con le fortune aziendali, tanto che esistono valutazioni di quanto vale un marchio in termini economici e non sorprende che i brand che valgono di più sono anche quelli delle aziende che sono al top delle classifiche generali e di settore.
E’ stato provato che avere un brand conosciuto dai consumatori, anche nel settore finanziario, è un elemento che dice immediatamente se la banca funziona meglio dei competitori perché una banca con un brand che abbia un valore funzionale ed emozionale fornisce ai suoi stake holders una promessa di efficacia ed efficienza, soprattutto se il brand serve a condividere una stessa identità. In parole povere un brand diventa un’icona, una bandiera di un’azienda di cui si è orgogliosi di fare parte come cliente, dipendente ed azionista. Qualcosa di lievemente irrazionale che, alla fine, somiglia molto all’amore perché è proprio questo l’effetto finale di un brand: suscitare amore verso l’azienda. Un amore che deve continuamente ravvivato ed essere diffuso in tutta l’organizzazione e che di solito è sintetizzata in uno slogan aziendale, la tagline che appare sui siti delle aziende di successo “Your potential. Our passion” è la tagline di Microsoft. “You & Us” quella di UBS, “The world local bank” quella di HSBC, “La banque du un monde qui change” quella di BNP Paribas.

Al contrario nelle nostre banche di solito è molto difficile trovare una frase che descriva sinteticamente l’essenza dell’azienda. Anche un dipendente di vecchia data non riesce a dare con un immagine semplice, immediata e pregnante l’essenza della sua azienda. D’altra parte è comune esperienza sentire l’impiegato allo sportello che smoccola sull’azienda che gli sta pagando lo stipendio, le rate della macchina, il mutuo e la scuola di pianoforte della figlia con velleità artistiche. Ma d’altra parte che fanno le aziende finanziarie per pompare il brand? Assolutamente niente o, quando lo fanno, si danno da fare con soluzioni fatte in casa come quella banca che aveva scelto un logo veramente orrendo, senza senso ed anche fuori contesto che però aveva il pregio di piacere all’AD che ha imposto che quella schifezza troneggi su tutte le agenzie della banca anche se aveva lo sgradito secondario effetto di dare fastidio agli automobilisti perché le sue luci multicolori si confondeva con i semafori.
E se volete toccare con mano un esempio di totale ignoranza del valore del brand nelle banche italiane lo si può sperimentare in maniera molto semplice su Internet.

Premettiamo che, con pochi soldi, frazioni infinitesime dei costi di una banca, è possibile far digitare un nome internet senza il www iniziale e questo per agevolare il navigatore, ma anche perché l’azienda ha contezza del fatto che il suo è un brand affermato e conosciuto. Provate a digitare ibm.com o cocacola.com o uno qualsiasi dei global brand e sarete portati sul sito istituzionale dell’azienda. Ovviamente funziona anche ibm.it o xerox.it perché il www è roba per il sito di una paninoteca. Se ne accorto anche Beppe Grillo che può essere raggiunto a beppegrillo.it.

Provare anche: hsbc.com, bankofamerica.com, barclays.com, bnpparibas.com, socgen.com, abnamro.com, citi.com, deutschebank.com, rbs.com, jpmorgan.com, morganstanley.com, ubs.com, ing.com, creditagricole.com, abbeynational.com Funziona! E qualcuno ha anche comprato i siti .eu.

Ora fate la stessa prova con le maggiori banche italiane. Unicredit.com non esiste, capitalia.com è stato scippato da uno più lesto di Geronzi. Intesasanpaolo.com non esiste. Ma non esiste nemmeno intesa.com, mentre sanpaolo.com porta ad una pagina anonima dove qualcuno si scusa del disagio. Generali.com non esiste, generali.eu parla di generali e di battaglie e mediobanca.com porta ad un sito che tratta oro che è abbastanza vicino alle attività bancarie ma non è la Mediobanca. Unipol.com appartiene ad altri. Ubibanca.com non esiste. Alcuni nomi sono addirittura liberi e possono essere comprati: una bella pacchia per i phisher.

Che significa tutto ciò? Semplicemente che, in generale, le banche italiane non hanno alcun attenzione al brand, il che potrebbe voler anche dire che loro dei loro stake holders non se ne fottono assolutamente niente. Basta che, come quel fesso di Pinocchio, portino in banca gli zecchini e poi, se lui vuole trovarci via web o via call center, è un fatto assolutamente secondario e neppure da incoraggiare perché il cliente è solo un grosso fastidio che distoglie dalla impellente necessità di andare a cazzegiare al bar di fronte.

FED e BCE: volo a vista

Il 17 dicembre 1903 i fratelli Wilbur e Orville Wright a Kitty Hawk, North Carolina (USA) fecero volare un vero aereo e questo contro le temerarie affermazioni di grandi scienziati, compreso il grande Edison, che avevano sentenziato che il volo di un manufatto umano più pesante dell’aria era fisicamente impossibile. Invece, due costruttori di biciclette dimostrarono che, se si abbandonano le vie solitamente seguite e ci si industria per risolvere un problema, non c’è traguardo che l’uomo non possa raggiungere.

Il loro Flyer, un insieme di metallo, legno, stoffa e di un piccolo motore a scoppio, non era complesso come un moderno Airbus o un Boeing, ma ne aveva le stesse necessità di comando e controllo ed, infatti, la chiave del successo dei fratelli Wright fu l’installazione di un sistema di manovra sui tre assi che comprendeva la possibilità di modificare il profilo delle ali per il bilanciamento laterale, un timone mobile verticale per il controllo della direzione ed uno orizzontale per la salita e la discesa.

Quello di cui dispongono oggi i banchieri centrali per gestire la complessa macchina della finanza è qualcosa di simile, e forse anche di molto più rudimentale, del sistema usato dai fratelli Wright per pilotare un aeroplanino di legno e tela quando, invece, per gestire una macchina composta di milioni di parti che operano sui mercati finanziari mondiali, ci sarebbe bisogno di un sistema di previsioni, di comando e di controllo molto più complesso, molto più sofisticato e perciò molto simile a quello che serve a gestire tutto il traffico aereo che insiste 24 ore su 24 sopra l’intero pianeta Terra.

Di fronte all’attuale crisi immobiliare, ampiamente prevista dagli economisti seri (vedi Robert J. Shiller “The New Financial Order” ,2003), ovvero non quelli che passano le giornate a mendicare un passaggio da Vespa e da Mentana, i banchieri centrali, coadiuvati dal loro codazzo di funzionari lautamente retribuiti, hanno mostrato al mondo di non avere altri strumenti di gestione che un’arcaica manovra sui tassi che ha effetti devastanti sia che venga utilizzata per frenare la liquidità sia che venga usata per dare denari ad un mercato asfittico e poco liquido.

La ragione è che manovrare solo i tassi è un modo rozzo e brutale di gestire la finanza in quanto gli effetti si spandono in maniera indifferenziata su tutti gli operatori con le conseguenze non volute (?) che vediamo in questi giorni. L’idiozia della FED di aumentare i tassi USA ha fatto lievitare le rate dei mutui e dei prestiti in un paese super indebitato e questo ha provocato l’ondata di default ingenerata anche dal vizietto di banchieri molto golosi di dare credito facile e senza controllo anche a cani e porci, cioè anche a chi non aveva merito creditizio. In parole povere, per bloccare il credito facile Greenspan, Bernake (ed il loro imitatore Trichet) hanno pensato bene di alzare i tassi, che è come dire che per evitare che dei vecchi volponi (gli hedge fund) vengano a bere nell’abbeveratoio delle vacche sane si chiude il rubinetto per tutti con la non voluta (?) conseguenza di far morire di sete anche le vacche da latte, cioè i piccoli utenti, cioè tutti noi ordinari mortali che di solito non abbiamo ne tempo ne denaro per specule sulle differenze di cambio e di tassi.

A che serve alzare i tassi ad un impiegato che si è comprata la casetta per viverci, conscio che è meglio investire in un piccolo esborso mensile per una rata affrontabile invece di buttare denaro in fitti senza ritorno? A che serve aumentare la rata al piccolo negoziante che compra le mura del suo negozio invece di far abboffare una vecchia stronza redditiera che campa da parassita sul lavoro degli altri? A che serve aumentare il costo dei prestiti per l’imprenditore serio e lavoratore che utilizza il credito in maniera giusta, cioè come polmone e non come capitale di rischio? Non serve ad un tubo. Anche se io userei una parola di 5 lettere più pregnante e meglio adatta al livello di incavolatura. Anzi, ha un effetto del tutto opposto a quello che (a chiacchiere) si propongono i banchieri centrali: fa solo aumentare l’inflazione, cioè la crescita dei prezzi.

Il meccanismo è molto semplice, siccome nessuno vuole perdere il proprio patrimonio, soprattutto se è la casa dove si abita o il proprio negozio, e nessun imprenditore può ridurre i costi oltre un certo limite (i famosi costi incomprimibili) è gioco forza, se i banchieri aumentano i tassi in maniera indiscriminata, che tutti si diano da fare per aumentare i propri redditi. I lavoratori chiedendo più salario e gli imprenditori aumentando i prezzi di merci e prestazioni. E, se le due cose non sono possibili, assistiamo a fenomeni che disturbano parecchio un’economia come la delocalizzazione delle imprese verso paesi più convenienti. Ovviamente, aumenti di salari e di prezzi fanno aumentare l’inflazione che è proprio il contrario di quello che (a chiacchiere) vorrebbero i banchieri centrali con le loro generalizzate acritiche manovre sui tassi che assomigliano tanto a una bomba atomica lanciata per sterilizzare un pantano pieno di rane, bisce e zanzare.

Che bisognerebbe fare invece? Bisogna rapidamente tornare ad un efficace e severo controllo del sistema finanziario impedendogli con la forza della legge (e non con la eludibile moral suasion) di prestare soldi a chi non può ragionevolmente restituirli. Questo significa anche che bisogna tornare ad un’antica regola: tassi bassi e bassissimi per chi non è a rischio e tassi proporzionalmente alti per chi è ha rischio o per chi fa operazioni a rischio e/o opera in mercati rischiosi. In altre parole tassi al 2 o 3% al massimo per i mutui e tassi alti e altissimi ai signori degli hedge fund e per tutti coloro che acquistano attività (finanziarie, immobiliari, azionarie) con soldi non propri e con l’utilizzo di leve finanziarie.

Grazie alle tecnologie dell’informazione non ci vuole molto a mettere in piedi un sistema di controllo in tempo reale e che ha anche una sua giustificazione etica e tanto per spegnere le voci contrarie (e disinteressate?) di chi vuole un mercato assolutamente e troppo libero che spesso si trasforma in una specie di selvaggio west dove vale la legge del più forte (le banche). Se ogni parte di un moderno aereo deve essere certificata per autorizzarlo a trasportarci, se le nostre auto devono rispettare severi parametri di sicurezza ed inquinamento per poter circolare, se i giocattoli dei nostri bimbi devono essere tolti dal mercato se sono potenzialmente pericolosi, se un formaggio per essere venduto deve garantire provenienza dei componenti e di processo, allora si può benissimo obbligare le banche e tutti gli operatori che concedono credito a rispettare delle semplici norme di prudenza nei confronti di pericolosi avventurieri e abbassare i tassi verso chi vuole solo una rata affrontabile per realizzare un sogno umano mimino: un tetto sopra la testa.

Non tutte le truffe vengono per nuocere

Una delle previste e probabili next big thing, ovvero il qualcosa che dovrebbe ridare vigore a mercati un po’ affamati di novità dopo l’abbuffata internet e dei celluari, sono gli RFID, le targhette elettroniche applicate ai prodotti che renderanno più semplice gestire la logistica. Gli RFID, infatti, si leggono a distanza, senza alcun contatto ed agevolano la gestione delle merci con un conseguente effetto positivo sui prezzi al consumo.

Gli RFID da noi stentano a decollare perchè, come al solito, manca un elemento di spinta, un driver che ne permetta l’adozione su larga scala. Negli USA c’è il solito Department of Defense, sempre a caccia di innovazioni, che spende e spinge per l’adozione delle magiche targhette che sono un grosso aiuto per la gestione di milioni di oggetti che sono alla base della logistica di una delle più grandi forze armate del mondo. Milioni di tonnellate di merci sono spedite ogni giorno in giro per il mondo e l’identificazione certa di un materiale può essere, nel campo militare, più che un modo di risparmiare piuttosto un accorgimento per evitare errori fatali. E non è un erroraccio inviare ad un reparto combattente un pallet pieno di dentifrici invece dei pezzi di ricambio per un radio da campo.

Altro grande protagonista americano della svolta RFID è Walmart, il colosso dei supermercati, che, con la sua potenza contrattuale, sta obbligando tutti i suoi fornitori a marcare i prodotti con le etichette elettroniche. E, siccome nessuno è disposto a perdere un cliente come Walmart, tutti si adeguano e si crea così una cultura basata sulle etichette intelligenti e questo darà un ulteriore impulso all’economia americana, confermando che è l’innovazione il principale motore per lo sviluppo delle economie moderne che devono pararare la concorrenza dei bassi costi praticati dai paesi in via di sviluppo.

Questi ultimi sono molto aggressivi, pronti a copiare ogni tecnologia ma anche disposti a giocare sporco e fuori delle regole, utilizzando metodi molto spesso illegali ed talvolta anche criminali come sono la contraffazione dei prodotti di marca e la loro sostituzione con prodotti pericolosi per i consumatori. Ormai è all’ordine del giorno scoprire dentifrici taroccati, medicinali che non hanno nessuna sostanza attiva, giocattoli velenosi e pericolosi che costano poco perché non rispettano le rogale che i paesi civili si sono dati con molto affanno per tutelare i consumatori.

In questo caso gli RFID potrebbero essere la risposta delle marche per evitare la contraffazione ottenendo un duplice risultato: tutela effettiva del consumatore e adozione immediata degli RFID che avrebbe un benefico effetto sui costi della logistica che sono poi scaricati sui prezzi finali.

Prendendo ad esempio il caso dei dentifrici contenenti sostanze tossiche e spacciato come quelli della famosa Colgate, è chiaro che, se in ogni tubetto fosse annegato un chip univoco, sarebbe facilissimo per il consumatore verificare l’autenticità del prodotto nel momento stesso che il tubetto passa sullo scanner della cassa. Per non parlare di quei prodotti cui prestare maggiore attenzione come i medicinali la cui contraffazione può portare gravi conseguenze per il malato.

Al momento però l’adozione degli RFID è frenata dal costo che è, come al solito, funzione dei volumi ma, se non si considera solo il vantaggio per il singolo sistema ma quello che ne avrebbe l’intero sistema industriale/commerciale, nonché quelli in termini di sicurezza (morti, malattie ed incidenti evitati) allora il costo è un elemento marginale. D’altra parte anche nelle automobili abbiamo avuto una lotta fra chi voleva maggiore sicurezza e l’industria che non voleva caricarsi di altri costi. Per fortuna hanno vinto i primi ed oggi abbiamo auto che costano meno di quelle degli anni 60 ma con una dotazione di sicurezza che è andata bel oltre le aspettative di chi metteva la salute dell’automobilista davanti ad ogni interesse economico. Le battaglie per la sicurezza automobilistica non hanno solo prodotto le cinture, i caschi, l’ABS e l’airbag ma hanno creato in primo luogo una cultura: quella della protezione del consumatore.

Adottare gli RFID per capire se una scatola di aspirine è originale o nient’altro che un po’ di qualche sostanza bianca, forse non innocua, può sembrare eccessivo e stupido ma far morire un bambino perché ha messo in bocca un giocattolo tossico non a norma CE lo è infinitamente di più.

Come era al verde la nostra valley

Nel 1976, “Mike” Markkula decise di non lavorare più. Grazie alle stock option ottenute per gli ottimi risultati come ingegnere elettronico alla Fairchild ed alla Intel, due dei più importanti produttori di componenti elettronici, era diventato miliardario e perciò non aveva nessun incentivo per continuare a lavorare. Aveva semplicemente chiuso con la corsa sfrenata al guadagno, quella rat-race che tanto impronta la vita americana. Se ne voleva solo andare a sciare a Lake Tahoe, bellissima località sciistica della California ed anche luogo natale di una mia amica bionda, che non c’entra nulla con le banche, ma che, vi assicuro, vale assolutamente la pena di ricordare.

Markkula, non dovendo più lavorare, aveva tempo libero e perciò si trovò a passare un giorno davanti al garage di un certo Steve Jobs dove conobbe anche il suo socio, l’altro Steve, Wozniak, e lì vide qualcosa che suscitò il suo interesse. Molto interesse. Cominciò a dispensare un po’ di consigli da esperto uomo d’affari a quei due ragazzotti che avevano pochissimi soldi e un grandissimo sogno. Un sogno epocale: creare un Personal Computer.

Markkula elaborò per loro un business plan e, quando capì che i due Steve avevano 5.000 (cinquemila) dollari in tutto, vi aggiunse 91.000 (novantunomila) dollari di tasca sua, chiedendo in cambio un terzo della società che i due smanettoni avevano fondato. Markkula era profondamente convinto che la Apple, sarebbe diventata, entro cinque anni, una delle cinquecento aziende più importanti americane, cioè sarebbe entrata nella lista Fortune 500 insieme ad aziende come: IBM, EXXON, General Electric, General Motors, Coca Cola ed altri simili colossi.

Ma non si limitò a metterci i soldi perché si rese anche conto che due sognatori non erano in grado di gestire un’azienda e perciò assunse Mike “Scotty” Scott, un dirigente della Fairchild che aveva l’esperienza necessaria per far diventare realtà il sogno dei due cantinari.

Questa storia, raccontata anche nel film “I Pirati della Silicon Valley”, che vi consigliamo vivamente di vedere e rivedere per rendervi conto che viviamo purtroppo in un paese “anormale, senza speranza e senza futuro, è un classico esempio di un’operazione di Venture Capital, quel sistema che ha creato gran parte delle aziende innovative americane che nascono su tre pilastri: gente con un sogno, gente disposta a rischiare il loro denaro su questi sogni e gente con una grande capacità di management che mette in gioco la propria reputazione su di un sogno. Perché avviare una start-up è un compito da far tremare le vene dei polsi anche al più esperto, navigato e scafato dei manager. Una start-up ha in se la possibilità di fallimento che però, nella società USA, non è una vergogna ma uno stimolo per riprovarci, per fare meglio. Vi siete mai chiesti perché noi usiamo le penne e gli americani le matite? Perché loro sono disposti a cancellare e rifare senza problemi. Noi italici, invece, vogliamo essere assolutamente certi di quello che facciamo e perciò cerchiamo di non correre mai rischi. Mai. Anche quando scriviamo la lista della spesa per il supermercato.

Gli italiani di solito non cercano un posto per lavorare ma semplicemente vogliono “il posto”!
Parola che implica qualcosa di fisso, di definitivo, possibilmente di molto statico e, ovviamente, sotto la tetta di mammà. Ma mai e poi mai, si aspira a qualcosa che implichi un rischio, un’attività e, soprattutto, un’innovazione. Innovare significa distruggere, diceva Mao intendendo che l’innovazione distrugge il vecchiume, l’obsoleto, il retrogrado. Ma implica anche rischiare di distruggere denaro. Ed il contadinaccio che è nelle linee genetiche dell’italico popolo non è disposto a perdere. Perciò nel nostro bel paese tutto resta tranquillo e quieto. Come in un cimitero!

Ovviamente ci sono le famose eccezioni che confermano anche gli andazzi più stantii. Quando sono venuto a Milano mi è stata raccontata di prima mano, cioè da quello che ci aveva messo i suoi soldi, di come si è sviluppato un brand del fashion italiano, uno ormai noto in tutto l’orbe terraqueo, forse più del Papa. Un signore con qualche disponibilità economica, diciamo una specie di “Mike” Markkula milanese, aveva avuto fiducia in una persona giovane, con belle idee innovative ma pochissimi denari. Fatta l’iniezione, ovviamente a rischio, dei necessari capitali, le idee di questo giovane, che oggi veramente onora l’Italia, hanno trovato il carburante per farsi strada nel mondo, a riprova che anche nelle nostre sgangherate e miserabili valley “al verde” si possono creare dei global brand a livello di Apple, Microsoft, Google, Chanel e Luis Vuitton.

Ma perché da noi il Venture Capital in pratica non esiste?

Una ragione l’abbiamo detta: il paese non ama il rischio perché è in gran parte un paese di rubizzi contadinacci che sembrano appena usciti da un quadro di Pieter Bruegel il Vecchio. Provincialotti con pochissima scolarità e interessati solo a quello che avviene fino al prossimo fiume o alla prossima catena di colline i cui abitanti, anche se distano in linea d’aria due o tre chilometri, sono visti come pericolosi estranei, quasi come dovevano apparire i selvaggi Scoti ai civilissimi soldati romani dell’imperatore Adriano. E poi: perché rischiare il proprio denaro quando si può vivere di rendita prestando i soldi allo Stato tramite i BOT? Perché azzardare il gruzzolo quando si può affittare in nero agli extracom un buco a Roma o a Milano? Perché avventurarsi in pericolose innovazioni quando con pochi ettari di terra si può mungere la vacca dei contributi comunitari e nazionali destinati ad un’agricoltura di mera rapina? Insomma, in qualche modo, il companatico l’italica stirpe se lo procura sempre. Mentre il pane lo dà quasi sempre un posticino alle Poste, alla ASL, al Liceo “Garibaldi”. Magari non un grande stipendio ma, unito all’esosa rendita del bilocale affittato agli studenti fuori sede della Bocconi (che non si comprende perché non se ne vadano a studiare a Princeton), si raggiunge quel cash-flow che permette all’italiano medio di rimanere a galla, anche se il liquido circostante è più liquame di fogna che acqua limpida di fonte.

Anche ai pochissimi economisti onesti e competenti sfugge il disastro causato dall’esistenza di un irredimibile debito pubblico. Di solito si guarda solo alla mera parte contabile del disastro: la Repubblica Italiana ha troppi debiti e quindi paga tantissimo in interessi. Inoltre, i suddetti economisti sciorinano con orrore il fatto che quest’enorme debito pubblico sia posseduto dagli stranieri, dimenticando però che l’altra consistente metà è posseduta (direttamente o indirettamente) dagli italiani stessi e che questo è solo un fenomeno recente. Un fenomeno post-euro quando gli italiani, abituati a vivere di rendita con BOT al tasso del 10%, si sono resi conto che, da allora in poi, i tassi dei titoli del debito pubblico sarebbero stati del 2/3%, con una decisa riduzione della loro rendita finanziaria parassitaria a spese della Repubblica Italiana.

Prima dell’euro ogni famiglia mediamente possedeva uno stock di 80 milioni di lire in titoli del debito pubblico e, ai tassi di allora, poteva ricavare 6/8 milioni di lire di rendita pura, cioè 500/600 mila lire al mese che integravano stipendi, pensioni e redditi da lavoro autonomo. Con i tassi al 2% post euro la rendita si è ridotta a 1.500.000 lire l’anno, cioè 70 euro al mese, mentre i prezzi schizzavano a razzo come lo Shuttle.

La cosa più devastante di quest’abitudine a vivere alle spalle di Pantalone, durata almeno 30 anni, è che ha creato negli italiani l’idea che c’è sempre un modo di “vivere” o “sopravvivere” mediante la rendita parassitaria, sia che venga dagli affitti sia che venga dagli investimenti in attività finanziarie. Ed è per questa ragione che tanti “furboni” (come Pinocchio) si sono fatti convincere ad acquistare i Bond Argentini. Con un 10% di rendita promessa sembrava tornata alla grande l’epoca del BOT grassi. Ma la storia ci ha dimostrato che la vacca argentina dai zizzoni gonfi di interessi era una bufala e nemmeno di quelle di Aversa, che almeno fanno il latte per la mozzarella DOP, che si vende molto cara.

Con questi chiari di luna e queste inculate al ritmo di tango è chiaro che l’italica stirpe di “risparmiatori al pecorino” si sia buttata sul mattone, contribuendo a far raddoppiare i prezzi degli immobili. Cosa che contiene un’ulteriore aggravante: chi “immobilizza” il suo capitale in un immobile non ha più liquidità e perciò deve parare le spese improvvise e gli aumenti costanti dei prezzi con una bella riduzione dei consumi, mentre, quando investiva in BOT, poteva sempre vendersi un titolo in caso di necessità.

Insomma la politica finanziaria dissennata dei governi della prima repubblica ha distrutto quel poco coraggio che gli italiani avevano mostrato nel dopoguerra e che aveva determinato il famoso miracolo economico. Per decenni la gente è stata disabituata a rischiare perché le rendite statali, da BOT o da “posto pubblico”, erano sicure e molto interessanti. Ed oggi è abbastanza tardi per convincere una popolazione fatta in gran parte di anziani ex contadini inurbati che investire in attività redditizie implica un rischio, come è normale che possa succedere con le strutture finanziarie sottostanti ad operazioni di Venture Capital.

Abbiamo visto che è per il momento impossibile alimentare con i fondi comuni, anzi c’è una continua disaffezione a questi strumenti, ma non è nemmeno facile costruire l’altro dei pilastri che è alla base del VC, quei fondi pensione che sono stati istituiti con molto ritardo e con modalità che non favoriscono certo la corsa in massa dei risparmiatori. Inoltre, questi strumenti sono stati istituiti come un altro pilastro della previdenza perché dovevano sopperire alle future deficienze della previdenza obbligatoria pubblica. Purtroppo questo spirito impedirà ai fondi di comportarsi come gli analoghi americani perché sicuramente non faranno operazioni rischiose se il loro scopo è di essere un pilastro della previdenza e non un sistema per avere una pensione aggiuntiva. Negli USA i fondi pensione sono strutture aggiuntive della Social Security e chi vi investe non cerca la sicurezza assoluta ma piuttosto il migliore rendimento e perciò i fondi americani sono fra i protagonisti delle operazioni di VC. Da noi nessun fondo pensione mai potrà investire in operazioni a rischio perché si è nei fatti “esternalizzata” nei fondi la funzione di “mantenimento” degli anziani che è invece propria della previdenza sociale. E, siccome i fondi dovrebbero essere alimentati dai TFR dei lavoratori, è chiaro che quei pochi che vi aderiranno impediranno qualsiasi avventura finanziaria che metta in pericolo “la liquidazione”, altro idolo dell’italiano medio che, dopo aver fatto finta di lavorare per 35 anni e rubato lo stipendio per uno stesso periodo pretende anche una buona uscita. D’altra parte non siamo il paese della commedia dell’arte? Quella dove paga sempre Pantalone?

La terza gamba del sistema di VC dovrebbe essere l’università, non tanto intesa solo come centro di ricerca, e quindi fucina di nuove idee, ma piuttosto come importante attrattore finanziario. La possibilità che dà la legislazione fiscale USA di poter avere dei benefici, quando si fanno donazioni alle università, permette a queste ultime di essere dei motori finanziari molto importanti che partecipano insieme ai fondi comuni ed ai fondi pensione al finanziamento delle start-up che, in molto casi, sono figlie dirette delle stesse università. L’algoritmo di Google è nato a Stanford e l’ateneo è anche socio di questa azienda che è nata come spin-off dell’università. Lo stato comatoso delle nostre università, che non sono in grado nemmeno di fare più la didattica normale, rende impossibile far partecipare i nostri atenei al finanziamento delle start-up nostrane ma nemmeno a far produrre loro brevetti ed innovazioni che in molte università americane costituiscono una buona parte delle loro rendite.

Infine c’è anche da dire che il sistema del VC americano trova una grande forza dal fatto che la DARPA, l’agenzia che cura l’innovazione per conto del Department of Defense (DoD), pompa continuamente denari nelle università e nei centri di ricerca delle industrie private per trovare nuovi mezzi utili alla difesa americana. La Internet è nata grazie ai finanziamenti del DoD, così come in tempo di guerra sono nati il radar ed il calcolatore elettronico. Ma può anche accadere che una ricerca nata in un’università diventi interessante per il DoD e perciò il sistema del VC, in autonomia, mette a disposizione i fondi, e spesso anche il management, utile a far sviluppare l’idea che, in molti casi, finisce per diventare un banalissimo prodotto commerciale senza alcun addentellato per la difesa.

La presenza in Italia di una forte componente antimilitarista e pacifista acritica ha sempre impedito anche una decente spesa nel settore della Difesa e quindi non c’è stato lo stimolo ad innovare come in Francia. Pochi si rendono conto che l’atomo francese civile è parente stretto dei reattori imbarcati sui sommergibili strategici della Marine National, che l’AIRBUS è parente strettissimo dei Mirage della Armée del Air e che il miglior CAD del mondo, il CATIA, è stato sviluppato dalla Dassault. Quando mi chiedono come l’Italia potrebbe darsi una mossa nella ricerca l’unica risposta seria, anche se in pratica impraticabile, è che la Marina Italiana commissioni all’industria italiana quattro portaerei, i relativi 500 aeroplani ed il naviglio di supporto, con l’accortezza di ordinare che “tassativamente” anche le tavolette dei cessi siano progettate in Italia. Proprio come fece quel pazzo di De Gaulle quando decise che doveva avere una Force de Frappe autonoma da quei vagotonici di americani.

Le implicazioni sul nostro sviluppo economico dell’assenza del VC

Senza denari non si cantano messe e nemmeno si fa innovazione. Oggi in alcuni settori (aeronautica, farmaceutico, medicale) servono milioni di euro per elaborare un nuovo prodotto, con un rischio molto elevato di fallire, e perciò i due apporti del VC, capitale di puro rischio e network, sono assolutamente essenziali. Però l’innovazione, e la conseguente introduzione di nuovi prodotti e nuovi processi produttivi, è l’unico modo di aggiungere valore e competitività. Il successo è oggi determinato da una semplice formula: bisogna essere monopolisti, anche per un periodo breve, con il lancio di prodotti che la concorrenza non ha ancora. Perciò innovare è necessario e questa è la spiegazione dell’arretramento continuo della nostra economia che, solo in pochi casi di eccellenza, vede aziende che innovano e perciò in grado di competere. E, ovviamente, quelle che fanno innovazione sono le aziende che hanno le spalle finanziarie forti per poter sostenere la ricerca senza apporti di capitali. Gli altri invece si limitano e si limiteranno ad una mera sopravvivenza che diventerà sempre più difficile.

Un modo di rimediare a questa situazione.

Premettiamo che il VC non è compito per le banche ordinarie, come pensa invece la maggior parte degli italiani che credono alle leggende metropolitane come quella che in USA si scarica tutto dalle tasse e che le banche americane presterebbero senza solide garanzie. Le banche di tutta la galassia non rischiano i soldi dei depositanti, o almeno non si fanno coinvolgere pesantemente in attività troppo rischiose. La missione delle banche è dare supporto temporaneo alle imprese, essere il loro polmone ausiliario, aiutare quelle già vive e vitali nella loro crescita fornendo credito adeguato alle capacità di restituzione nonché tutti quei servizi finanziari che sollevino le aziende da compiti che non sono propri. La banca non deve rischiare e perciò non deve capire che fa l’azienda ma piuttosto deve capire i bilanci che l’azienda presenta per avere quel credito che, mai e poi mai, deve diventare capitale di rischio come purtroppo abbiamo visto negli scorsi 180 anni quando decine di banche italiane sono diventate, di fatto, socie di grandi aziende non più in grado di restituire terzi e capitale. Aziende ormai morte che riescono però a “galleggiare”, come gli stronzi sull’acqua, grazie al fatto che imprenditori senza idee tengono in ostaggio centinaia di migliaia di famiglie di operai per i quali “deve essere” mantenuto un posto di lavoro (inutile) e, per altro, pagato con uno sputo in mano alla fine del mese. Questi denari prestati per forza a veri camorristi in gessato blu, sono sottratti a quelle imprese che invece di idee ne hanno e che potrebbero contribuire a far pendere a nostro favore la bilancia dei pagamenti. Non è certo vendendo nostri prodotti agli italiani stessi che potremo pagare gli uomini del KGB e del PCC, oggi riciclatisi come politici-affaristi monopolisti di materie prime e venditori di lavoro schiavistico.

Il VC è invece rischio e soprattutto competenza, sia per la comprensione dei modelli di business sottoposti per il finanziamento sia per capacità di fornire alle aziende in gestazione quelle capacità di management, tramite il network di conoscenze che il VC possiede. Molto spesso l’inventore o lo scienziato non ha capacità manageriali e non è in grado in maniera autonoma di procurarselo. Anche perché c’è mancanza di buoni manager. Questo, per inciso, in Italia è un problema molto sottovalutato perché non ci si rende conto che ci sono delle scuole di management che monopolizzano l’addestramento dei futuri manager. Scuole autodefinitesi prestigiosissime (anche se non hanno mai prodotto un Nobel), scuole che propalano una monocultura, di solito in ritardo di almeno quattro anni rispetto agli altri paesi, e basta vedere le date di uscita delle traduzioni italiane di testi topici di economia, management e cultura, quando pure siano tradotte e non “censurate” perché sgradite agli interessi dell’editore.

Il panorama quindi è abbastanza sconfortante, con pochi veri VC che non possono manovrare grandi masse monetarie perché manca la struttura finanziaria anche se non mancherebbero ne i denari ne quelli che istituzionalmente potrebbero farsi parte attiva in queste operazioni. La Cassa Depositi e Prestiti (CDP), invece di continuare a prestare soldi ai soli comuni per opere a volte discutibili, potrebbe anche impegnarsi in questo settore vitale dell’economia. Così come lo potrebbero fare le Fondazioni ex bancarie che tanto ex non lo sono considerato che la loro maggiore attività è di mantenere saldo il potere nella banche. Le Fondazioni sono oggi solo dei centri di potere per i politici locali, poltrone per politici nazionali trombati ed in disarmo, affittacamere di alloggi di lusso a parenti dei politici e, dulcis in fundo, centri di erogazione di elemosine ad entità varie locali presso cui farsi il buon popolo per le prossime lezioni. E qui si vede l’assoluta incongruenza del nostro agire: le Fondazioni tengono impegnati capitali ingentissimi nelle banche per ricavarne una rendita allo scopo di fare elemosine. Proprio quello che gli economisti esperti del sottosviluppo hanno scoperto essere la peggiore forma di aiuto. Continuare a fare regali non serve a far crescere una nazione. Fare una serie di regalie ogni anno, dopo aver munto le proprie banche, non crea nessun vantaggio, proprio come fare l’elemosina a quello che ti lava i vetri al semaforo non lo stimola ad uscire dalla sua condizione. Le fondazioni continuano a mantenere accattoni che perpetueranno il loro stato di accattoni mentre, invece, sarebbe bene utilizzare un parte dei loro fondi per finanziare le strutture di VC che, a loro volta, potrebbero far sviluppare attività innovative che quasi sempre aiutano le persone ad uscire dal loro stato offrendo lavoro e soprattutto creando progresso. Ma qualcuno dei dirigenti delle fondazioni ci pensa mai che da qualche parte c’è un brillante ricercatore (ahimè! senza soldi) che può, con un bella pensata, migliorare la vita di milioni di esseri umani?

Ciò premesso, è chiaro che anche da noi si potrebbe costruire un sistema di VC, ma è altrettanto chiaro che occorre anche una grande opera di comunicazione al pubblico dei risparmiatori ai quali deve essere sbattuto in faccia la terribile verità: chi vuole guadagnare di più deve rischiare di più, senza che poi vada a frignare dal magistrato per farsi ridare i suoi 5 zecchini. Nel contempo occorrerebbe che lo Stato, il grande concorrente nel drenaggio del risparmio, attuasse una serie di politiche volte a: ridurre le sue spese e quindi le tasse e l’indebitamento; rendere più autonome le università favorendo il finanziamento diretto delle stesse con opportuni sgravi fiscali; rendere appetibili gli investimenti in VC con una legislazione fiscale che tenga conto anche delle eventuali perdite e non solo dei guadagni; eliminare ogni tipo di finanziamento pubblico alle imprese che comporta il terribile svantaggio di abituare le imprese ad essere assistite e crea fenomeni di inquinamento fra la politica e quella imprenditoria non sana e non rivolta al mercato. Infine, se lo Stato e la UE la smettessero di regalare all’agricoltura una fetta molto consistente del bilancio comunitario, forse avremmo qualche finto contadino in meno, qualche brevetto in più e di sicuro più reddito, anche per dare un lavoro moderno e produttivo a quel Bertoldo parassita che ci sta trascinando nel baratro.