Turismo record… ma non per gli italiani

Nuovi stili e impoverimento cambiano le vacanze

Nel 2023 l’Italia ha toccato numeri storici: 134 milioni di arrivi e 451 milioni di presenze nelle strutture ricettive, superando persino il 2019. Ma dietro al trionfo dei dati si nasconde una realtà meno celebrata: a trainare sono stati soprattutto i turisti stranieri.

Gli italiani, invece, viaggiano meno:

Solo 52,1 milioni di viaggi con pernottamento (-27% rispetto al 2019)
323,6 milioni di notti (-21% rispetto al 2019)
In estate, appena il 31,5% dei residenti ha fatto almeno una vacanza tra luglio e settembre (contro il 37,8% del 2019).

💡 Il paradosso: il Belpaese batte record di presenze, ma sempre più italiani restano a casa o riducono le vacanze. Un fenomeno che apre domande su redditi, costo della vita e nuovi stili di consumo.

✈️ E voi? Nel 2023 avete viaggiato meno, di più… o uguale?

Hollywood in crisi?

Ecco perché non è (più) una fabbrica di sogni

Ti sembra che i film di oggi siano tutti uguali? Non sei il solo! Hollywood sta attraversando un periodo difficile e la sensazione che “il prodotto non ci sia più” è la sintesi di una crisi profonda.

Cosa sta succedendo?

* Pochi incassi al cinema: A parte rari successi, il botteghino fatica a decollare. La gente preferisce aspettare l’uscita in streaming.

* Troppi “sequel”: Hollywood punta su sequel, reboot e spin-off, soffocando la creatività e la voglia di storie originali.

* L’impatto dello streaming: Le piattaforme hanno cambiato le nostre abitudini, mettendo in crisi le sale cinematografiche.

Insomma, il cinema americano si trova a un bivio. La tua sensazione non è affatto sbagliata, ma è il sintomo di un’industria che deve reinventarsi.

Solo le top 10 spaccano

Mercati troppo concentrati su chi fa super profitti… ed il resto?

Grafico interessante. L’indice S&P 490 (che esclude le 10 solite Top) non ha praticamente registrato alcuna crescita degli utili dal 2022, nonostante l’inflazione dilagante.

Si tratta solo di 10 aziende che stanno andando molto bene, mentre l’economia in generale è in contrazione in termini reali.

Ma la concentrazione estrema delle performance in poche aziende non è solo un fenomeno USA, anche se negli Stati Uniti è più visibile perché il mercato azionario è enorme e trasparente.

1. Europa

In Francia, il CAC 40 è trainato da LVMH, L’Oréal, TotalEnergies, Hermès: moda/lusso ed energia hanno performance molto migliori rispetto al resto.

In Germania, il DAX è dominato da SAP e dai big dell’auto (Mercedes, BMW, Volkswagen). I settori tradizionali meno internazionalizzati arrancano.

In UK, il FTSE 100 è sbilanciato su energia e materie prime (Shell, BP, Rio Tinto, Glencore), mentre molti titoli domestici sono stagnanti.

2. Asia

In Giappone, il Nikkei 225 ha visto la spinta enorme di SoftBank, Toyota, Keyence, Fast Retailing, ma gran parte delle aziende resta in crescita modesta.

In Cina, l’Hang Seng e il CSI 300 hanno una concentrazione altissima in Tencent, Alibaba, Meituan, e nei big bancari/energetici.

3. Mercati emergenti

In India, il Nifty 50 è guidato da Reliance Industries, TCS, Infosys, HDFC Bank, mentre molte aziende industriali tradizionali sono in stallo.

In Brasile, l’Ibovespa è spinto da Petrobras e Vale; il resto dipende molto da cicli delle commodities.

💡 Meccanismo comune:

Poche aziende globali, con brand fortissimo e margini elevati, attraggono capitali e crescono più velocemente.

La maggior parte delle altre aziende ha mercati domestici limitati, margini bassi e minore accesso a capitali e innovazione.

📊 In quasi tutti i mercati sviluppati oggi puoi fare un “S&P 490 locale”: un indice senza le 5-10 aziende top, e vedresti la crescita sgonfiarsi drasticamente.

Le conseguenze di questa “bitcoinizzazione” delle top aziende sono profonde, e si riflettono su mercati finanziari, economia reale e politica.

1. Mercati finanziari

Concentrazione del rischio → Se le Top 10 crollano, l’intero indice globale e migliaia di fondi passivi subiscono un contraccolpo immediato.

Distorsione dei multipli → Gli investitori pagano multipli molto alti per le top, mentre il resto del mercato rimane sottovalutato o stagnante.

Dipendenza degli ETF → I fondi indicizzati sono costretti a comprare sempre di più le top (per replicare gli indici), creando un meccanismo di feedback positivo simile a una bolla controllata.

2. Economia reale

Allocazione di capitale squilibrata → Flussi enormi vanno a poche aziende già ricche di liquidità, mentre le aziende emergenti o i settori tradizionali ricevono poco investimento.

Produttività polarizzata → Le top aumentano la produttività interna, ma non trasferiscono tecnologia e competenze al resto dell’economia, creando un gap strutturale.

Occupazione limitata → Le top crescono in valore, ma non creano “buon lavoro” in proporzione, perché il modello è scalabile e automatizzato.

3. Politica ed equilibrio sociale

Potere di lobbying enorme → Con capitalizzazioni e liquidità così alte, le top possono influenzare normative e regolamentazioni a proprio vantaggio.

Ineguaglianza crescente → Gli utili e i dividendi si concentrano sugli azionisti istituzionali e sui top manager, mentre il resto della popolazione vede stagnare salari reali.

Tensione redistributiva → Cresce la pressione per tassare extra-profitti, nazionalizzare quote o usare il modello “fondo sovrano” per redistribuire la ricchezza.

💡 In sintesi:

Se il trend continua, rischiamo mercati sempre meno rappresentativi dell’economia reale, con volatilità sistemica legata a poche aziende, un’economia polarizzata e conflitti politici più duri sulla redistribuzione.

Il finale logico di questo percorso è una regolamentazione più aggressiva (antitrust, tassazione) oppure un capitalismo di Stato mirato con nazionalizzazione parziale e redistribuzione: UBI e UBS.

💡 UBI e UBS: reddito di base e servizi universali.

Un concetto che in Silicon Valley hanno capito da tempo: il lavoro di massa, come lo conoscevamo, non tornerà mai più!

La solidità dei legami minata dalle maschere

Un mondo pirandelliamo dove ognuno può essere 8b di identità, di cui nessuna vera, neppure per se stesso, e dove si recita anche l’amore, cioè il sentimento della massima sincerità.

Questa riflessione nasce da due eventi di ieri: chiacchiarata con un madre preoccupata del futuro “sentimentale” della figlia, e la tragedia di una ragazza morta durante una festa con “amici”, che pare non siano così amici, visto che nessuno “sa” com’è morta.

Due giovani donne, una che potrebbe finire in pericolo, una che non si aspettava il pericolo da una festa tra “amici”.

Viviamo in un’epoca di libertà affettiva assoluta, ma anche di fragilità relazionale crescente. Non è un giudizio morale, è un dato statistico: i tassi di separazione e divorzio sono esponenziali.

Una volta le relazioni nascevano in contesti di prossimità e interconnessione sociale. Le famiglie si conoscevano, le storie si sviluppavano in ambienti dove esisteva una rete di relazioni stabili e trasparenti. Questo sistema aveva limiti evidenti, ma offriva anche alcuni vantaggi pratici che oggi abbiamo perso:

– Trasparenza comportamentale: era più difficile costruire identità fittizie quando tutti conoscevano la tua storia

– Responsabilità sociale: comportarsi male aveva conseguenze concrete nella comunità di appartenenza

– Compatibilità valoriale: condividere contesti culturali simili riduceva molti attriti relazionali

– Reti di supporto: le crisi si affrontavano con il sostegno di famiglie e amicizie che conoscevano entrambi i partner

Oggi le donne soprattutto (ma anche gli uomini) si muovono in un panorama affettivo infinitamente più ampio ma anche più opaco.

Il paradosso è pirandelliano: nell’epoca in cui teoricamente potremmo sapere tutto di tutti, siamo circondati da 8 miliardi di identità non verificabili.

Ognuno è “uno, nessuno e centomila” – può reinventarsi a ogni app, a ogni incontro, a ogni città: Le piattaforme online permettono di cambiare maschera continuamente, con una conseguente opacità su chi è quello dietro lo schermino.

La libertà di scegliere chiunque, ovunque, ha portato nuove opportunità ma anche nuovi rischi: partner senza storia verificabile, relazioni senza radici, legami che si dissolvono senza conseguenze sociali, ma ferite non risanabili,

Da questo, legami fragili, e anche opportunistici, di chi tratta il cuore di un’altra persona “come fosse un barattolo” da calciare.

Siamo nell’epoca dell’informazione totale e dell’opacità relazionale assoluta. Possiamo sapere cosa ha mangiato uno sconosciuto a colazione, ma non possiamo verificare se chi dice di amarci è davvero chi dice di essere.

Non si tratta di rimpiangere il passato o auspicare un ritorno ai matrimoni combinati, o quelli d’interesse (che funziona sempre!)

Si tratta di riconoscere che la prossimità sociale e culturale rimane un fattore statisticamente rilevante per la stabilità delle relazioni.

“Partner e buoi dei quartieri tuoi?”, estemizzando!

Ma forse la lezione non è tornare indietro, ma essere più consapevoli: in un mondo di infinite possibilità, scegliere partner che condividono non solo attrazione ma anche contesti, valori e reti sociali potrebbe non essere limitazione, ma saggezza pratica.

La modernità ci ha dato la libertà di scegliere, e una enorme platea dra cui scegliere. Ma non ci ha insegnato come scegliere.

E la cattiva scelta porta solo a solitudine, e scalate in solitaria

La teoria delle cheerleader

Come l’entusiasmo ha sostituito la produzione nel capitalismo avanzato


Ovvero il capitalismo post-industriale, la produzione non basta. L’innovazione non è sufficiente. Nemmeno la qualità lo è più.
Per emergere, un prodotto – o un’azienda – deve essere applaudito, desiderato, accompagnato da entusiasmo collettivo.
Ecco perché serve una teoria nuova, che non parla di fabbriche, supply chain o marginalità.
Parla di cheerleader.

1. L’intuizione

La Teoria delle Cheerleader parte da una semplice osservazione:

> In ogni ecosistema economico complesso, esiste una categoria di attori che non produce valore diretto, ma crea le condizioni affinché il valore si esprima, si moltiplichi e venga riconosciuto.

Le cheerleader economiche non scrivono codice, non brevettano molecole, non costruiscono infrastrutture.
Ma fanno qualcosa di altrettanto importante: focalizzano l’attenzione.
Creano attesa.
Accendono desiderio.
Producono narrazione.
E soprattutto: fanno sentire tutti dentro un gioco vincente.



2. La legge dell’entusiasmo

Il valore oggi è funzione di quanto entusiasmo sei in grado di generare, non solo di quanto utile produci.
E l’entusiasmo ha dinamiche precise:

È contagioso, come un virus.

È volatile, come un titolo tech.

È costoso da generare, ma altamente redditizio se ben monetizzato.

Il cheer non è un corollario del business.
È il business.



3. Le tre funzioni delle cheerleader economiche

a. Attrarre attenzione

Come le cheerleader aprono la partita prima ancora che il gioco cominci, così le aziende e i marchi devono farsi notare ben prima del “prodotto”.
Un buon lancio è spesso più importante del contenuto stesso.
Nel B2B come nel fashion.

b. Creare contesto

Un computer vale mille euro.
Ma un computer con la mela sopra, accompagnato da Keynote, rumors, leak e fila all’Apple Store… ne vale duemila.
Le cheerleader cambiano la percezione.
E la percezione è il nuovo capitale.

c. Stimolare coinvolgimento

L’utente, il cliente, l’azionista devono tifare.
Sentirsi parte.
Sostenere pubblicamente.
Le cheerleader convertono il consumatore in fan, e il fan in testimonial gratuito.
Il cheer è un moltiplicatore di valore non contabilizzato.



4. La finestra di appeal

L’entusiasmo, però, ha una scadenza.
Come le performance sul campo, anche l’appeal mediatico e narrativo ha una finestra temporale.
Una stagione. Due, se sei bravo.
Tre, se diventi leggenda.

Ecco il punto critico della Teoria:

> Le aziende cheerleader devono monetizzare in quella finestra.
Perché dopo, potranno solo vivere di rendita, imitarsi, difendere una rendita di posizione o – più semplicemente – diventare noiose.

Due esempi illustri:

Apple: ha smesso di innovare radicalmente da tempo, ma continua a estrarre valore dall’effetto cheerleader costruito tra il 2001 (iPod) e il 2014 (Watch). Tutto il resto è ottimizzazione.

Microsoft: dopo la botta d’orgoglio con Xbox e Azure, oggi vive di una rendita di predominio infrastrutturale e abbonamenti imposti. Nessun entusiasmo, ma tanta posizione dominante.

Sono due esempi di cheerleader divenute matriarche.
Non saltano più, ma dettano il ritmo a chi corre.

5. Implicazioni sistemiche

a. Nella startup economy

Le presentazioni contano più del prodotto.
Il pitch vale più del codice.
Il carisma del founder più del business plan.

b. Nel lavoro

I migliori non sono sempre quelli che fanno.
Ma quelli che fanno fare agli altri, ispirando, trainando, parlando bene al momento giusto.

c. Nella politica

Le cheerleader non stanno solo nei partiti.
Stanno nei think tank, nei social media manager, negli spin doctor, nei movimenti di opinione pre-confezionati.

6. Rischi e patologie

La cheerconomy ha effetti collaterali:

Hype tossico: progetti sopravvalutati che crollano appena si spegne la musica (vedi Theranos, FTX).

Sovrainvestimento emotivo: consumatori che si identificano con brand come se fossero squadre di calcio.

Disconnessione dalla realtà: prodotti inutili celebrati da community accecate (NFT, AI inutili, abbonamenti immotivati).

7. Le cheerleader stanche

Ogni sistema che vive di entusiasmo costante produce esaurimento.
Chi crea hype, a un certo punto, non ce la fa più.
Burnout di founder, di content creator, di brand ambassador.
Il cheer è energia, ma anche logorio.
Come in ogni squadra, a un certo punto le cheerleader si fanno da parte.
Ma se nessuno prende il loro posto, lo show si spegne.

.7 Il cheer nella carriera personale

La Teoria delle Cheerleader non vale solo per le aziende, ma anche per le persone.

Nel mercato del lavoro contemporaneo, la competenza è necessaria, ma raramente è sufficiente.
Ciò che distingue un “tecnico bravo” da un “talento in ascesa” è spesso la capacità di generare entusiasmo intorno a sé.

Parliamo di persone che:

raccontano bene ciò che fanno,

attirano consenso nei team,

trasformano la visibilità in reputazione.

Chi ha successo non è sempre il più competente, ma spesso il più trainante. Chi sa “fare cheer” – anche senza danzare – costruisce consenso, aggrega valore, fa salire la temperatura emotiva intorno al proprio nome.

Il personal branding, se vogliamo semplificare, è la versione individuale del cheer.
E come per le aziende, anche qui esiste una finestra: una fase della vita in cui si ha appeal professionale, carisma comunicativo e una storia interessante da raccontare.
Va monetizzata, capitalizzata, nutrita con relazioni.

Poi si vive di rendita.
Oppure si cambia gioco.
O, come accade ai migliori, si diventa allenatori di cheerleader.

Conclusione

La Teoria delle Cheerleader non è un vezzo retorico.
È una chiave di lettura potente del capitalismo contemporaneo, dove:

l’attenzione vale più della materia prima,

la narrativa batte la tecnica,

e l’entusiasmo ben incanalato è il miglior capitale di sempre.

Non tutti sanno creare entusiasmo.
Ma chi ci riesce, per un momento, vale quanto mille ingegneri.

E chi riesce a monetizzare quell’entusiasmo prima che svanisca, può permettersi di smettere di correre, e vivere di rendita.
Finché arriva il prossimo che sa saltare più in alto, con un sorriso più largo, e i pompon più scintillanti.