Discorso alla nazione

Sergio Mattarella e tornio antico

Non so se esiste un altro paese dove, come primo atto pubblico, il capo dello stato senta il dovere di fare il resoconto del fallimento della nazione.

Debito pubblico inarrestabile, corruzione diffusa nella PA, inefficienze ormai insanabili in ogni comparto,  – compresi quelli essenziali come la giustizia e il fisco – mafie ormai stanziali in tutto il paese, disoccupazione dilagante, emigrazione giovanile crescente e, ovviamente, crisi economica che nessuno prova a fermare, visto che, ben quattro governi, non hanno fatto non solo niente ma addirittura meno di niente dato che hanno solo peggiorato la situazione.

Questo giusto per toccare alcuni temi.

E per fortuna non ne ha toccato altri, come scarsa ricerca e innovazione, aziende che non capiscono la globalizzazione, e men che mai la digitalizzazione, anche se si pensa che, stesa un po’ di fibra ottica, questa possa portare magicamente le aziende e la PA a superare un digital divide che non è nei cavi ma sopratutto nelle teste della classe dirigente.

Sarà forse un bene che il capo dello stato faccia l’inventario del disastro in modo che la classe dirigente si adoperi per migliorare la situazione?

Può essere, ma certamente non basta.

Santo Lamentino non fa miracoli, e neppure serve. Basterebbe che il primo ministro, autoproclamatosi salvatore della patria, facesse qualcosa di concreto invece di manovrare la scacchiera per piazzare i pezzi giusti sulle poltrone giuste.

Perchè può avere tutto il potere che vuole, ma se non ha uno straccio di piano, a niente gli servirà aver occupato ogni poltrona pesante: è questa è una crisi infinita, perché sono cambiati i parametri del problema, è in corso un gioco diverso, è come se in un campo di calcio all’improvviso si dovesse giocare a pallanuoto, ed occorrono perciò manovre non convenzionali, non certo quelle rispettose dell’ortodossia economica di Padoan, brav’uomo ma non per tutte le stagioni.

Speriamo, (ma non fidiamo), che il nuovo capo dello stato, con calma e pacatezza, faccia capire che il timer sta per trillare, e che non ci sono molte più possibilità di salvarsi, e che sarebbe sicuramente un bene darsi una mossa.

Il voto della paura

Denaro e paura Filiale di una banca in un posto non particolarmente ricco del paese.

100 milioni di euro investiti dai clienti risparmiatori, in media cento mila euro a risparmiatore, ma c’è pure chi ha 5 milioni di euro e chi solo 20.000.

Mille persone che certamente non hanno sofferto per l’aumento della ritenuta dal 20% al 26% sulle rendite finanziarie.

La maggior parte compra BOT, rendono poco, non sono tassati, non è un grande investimento, ma la gente non ha tutta quella competenza per avventurarsi in borsa, comprare corporate bond, derivati e altri strumenti esotici.

Al massimo fa polizze sulla vita, pure queste non tassate.

E se pure qualcuno di loro avesse scelto di investire in strumenti tassati, che al massimo rendono il 3% l’anno, se prima su 100 mila euro pagavano 600 euro di tasse, con la tassazione al 26% l’imposta è 780 euro, quindi un aggravio di soli 180 euro, cioè due settimane di spesa, ma non fatta dalla Picierno ma da una famiglia normale.

Ora, data questa fauna di risparmiatori, molto diffusa in Italia, è chiaro che uno come Grillo (e l’inquietante Casaleggio) avrebbero spaventato questi che già si vedevano inquisiti da tribunali popolari pronti a chiedere ragione di come, in un paese a fine corsa, praticamente fermo, uno abbia 100 mila euro in banca mentre il povero Renzi deve ricorrere alle più fantasiose manovre contabili per giustificare 80 euro in busta paga, ma non per tutti.

In questi minus habens finanziari, ma ancora con il salvadanaio bello grasso e tondo, devono essere scattate paura, incertezza e dubbio, se buttarsi o meno in braccio ai due milionari barricadieri proprietari del cinque stelle.

Perciò, scartato il Berlusca azzoppato e il pulviscolo degli altri partiti, hanno votato uno che altri danni non ne può più fare.

Oddio, non può fare neanche niente di buono, visto che non ci sono soldi per gli investimenti pubblici, non c’è capitale di rischio per innovare nelle aziende (ammesso che abbiano la testa e la visione per innovare) e le riforme possono spremere, da un bilancio dello stato incomprimibile, null’altro che spicciolo per dare 80 euro anche a pensionati e cocopro.

I redditieri hanno scelto chi gli faceva meno paura, un simpatico Pinoccio che ha martellato il Grillo, spera di trovare un Mangiafuoco che gli regali tre zecchini dorati ma che sotto sotto spera che una delle sue colleghe sia una fatina con tanto di bacchetta magica d’ordinanza.

50 percento

 

cessata-attività

Secondo una ricerca dello Studio Ambrosetti, quello che organizza il convegno annuale a Cernobbio, il 50 percento delle aziende italiane con più di 10 dipendenti va malissimo mentre l’altra metà va benissimo.

E quelle che vanno male lo devono ad un solo fattore: imprenditori che non hanno capito la globalizzazione e neppure capiscono la rivoluzione digitale.

Che possono fare gli aspiranti guidatori di un treno che marcia a metà velocità?

Ma forse la domanda vera è: quanto ne capiscono i Grilli, i Renzi e i Berlusconi di cosa sta accadendo?

Intellettuali traditori

La Grande Bellezza - arresto del narcotrafficante
La Grande Bellezza

Tenuto conto del poco valore aggiunto dato al paese dalla classe politica e, insieme ad essa, anche da una bella fetta della classe dirigente, è facile incolpare questi e dimenticare che la colpa più grave è di altri che hanno tradito il paese.

Sono gli intellettuali italici i maggiori responsabili della crisi morale che poi ha importanti effetti su tutte le altre crisi.

Accademici, scrittori, registi, sceneggiatori, scienziati, economisti, ricercatori, hanno smesso (dai tempi di Pasolini) di offrire alla classe dirigente la visione di cosa accade nel mondo, di cosa sia il paese e di cosa sta per accadere.

Il risultato? Una classe politica e dirigente che vola basso, alla cieca, senza nessuna idea di come è fatto il paese e sopratutto degli impatti delle grandi rivoluzioni in corso: globalizzazione, digitalizzazione, automazione spinta.

Tanto per dare un esempio di cosa accade in USA, basti pensare che da loro la discussione (a livello di Nobel) è di cosa fare di milioni di colletti bianchi che nei prossimi 10 anni non avranno più un ruolo a causa dell’automazione, l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale e l’interconnessione fra sistemi digitali.

Da noi vediamo accademici che fanno convegni (per prendere soldi dagli sponsor in cerca di visibilità) dove si parla di temi orecchiati, di moda e spesso non adatti al nostro tessuto economico e sociale.

Il cinema e la letteratura non parlano mai del paese, non lo conoscono, forse se ne vergognano, e quando esce un film “realista” c’è il crucifige contro il regista che ha osato sciorinare sullo schermo i panni sporchi.

Ma neppure le storie belle e straordinarie, che veramente fanno onore al paese, sono portato alla luce per dare alla gente un senso di orgoglio e di appartenenza.

Abbiamo così una società con una classe dirigente cieca, la gran parte della popolazione che cerca di sopravvivere (e lo fa anche bene, visto che nessuno guida), e gli intellettuali chiusi nelle loro cerchie, che non tirano per la giacchetta i politici per avvisarli, per guidarli, ovviamente con gli strumenti di loro competenza, di dove va il mondo e come si evolve l’uomo.

Guernica dice tante cose. Eppure è solo un quadro.

Apocalipse Now è un film, eppure spiega tanto all’America meglio di qualsiasi analisi socio-politica del suo non volere ma dover essere potenza imperiale.

Cosí come La grande bellezza, dove l’oggetto di critica non è Roma, ma la cultura italica ben rappresentata da una nana con la sua minestra riscaldata.

Il risparmio non é mai guadagno

Spesa pubblica in Europa

Uno dei capolavori di mistificazione costruiti dalla classe dirigente italica è stato quello di far credere che tutti problemi sono nella spesa pubblica e che, ovviamente, tutte le soluzioni sono nel taglio della stessa.

Ovviamente, come tante leggende metropolitane, anche se uno sciorina statistiche che mostrano che la spesa italica non è poi cosí lontana da quelli di altri paesi, la gente continua a credere alla leggenda, perché è la spiegazione più semplice (spesa pubblica = tasse = meno soldi da spendere) e perché evita di far pensare al vero problema: il paese è poco produttivo, sia nel pubblico e sia nel privato, con un settore pubblico che spende tanto ma male e un settore privato che lavora molto ma produce poco.

Le ragioni sono note: nel pubblico si erogano tanti stipendi e sussidi (anche alle imprese) ma è una spesa allocata male, e basti pensare che si spende poco per asili nido e altre provvidenze per le donne, e non si spende in innovazione che spingerebbe la ricerca scientifica e tecnologica.

Nel privato (ad esclusione di quelle aziende che esportano e che se la giocano alla grande contro la Germania), ci sono un sacco di aziendine incapaci di avere una gestione manageriale (e non padronale), poco capitale (e quindi vivere attaccati alla tetta ormai sterile delle banche) il che non permette l’innovazione e l’automazione, unica strada verso il miglioramento dei prodotti e dei servizi.

Quindi, pure immaginando di tagliare con l’accetta la spesa pubblica e mettere un po’ più di soldi nelle tasche della gente, quale sarebbe il risultato oltre l’immediato? Solo rimandare la fine di queste aziendine che certamente non automatizzeranno oggi se non l’hanno fatto ieri quando il soldo c’era.

Che fare dunque? L’unica cosa è migliorare la spesa pubblica, indirizzandola a dare sussidi a chi cerca attivamente un lavoro, incentivare l’automazione nel pubblico, aiutare le famiglie con asili nido e scuola a tempo pieno, aiutare quelle aziende che investono in automazione e che vendono all’estero.

Scopo? Guadagnare di più come paese. E con più esportazioni e più soldi, dare più efficienza alla macchina pubblica e più aiuto a chi è in cerca di lavoro.