La teoria delle cheerleader

Come l’entusiasmo ha sostituito la produzione nel capitalismo avanzato


Ovvero il capitalismo post-industriale, la produzione non basta. L’innovazione non è sufficiente. Nemmeno la qualità lo è più.
Per emergere, un prodotto – o un’azienda – deve essere applaudito, desiderato, accompagnato da entusiasmo collettivo.
Ecco perché serve una teoria nuova, che non parla di fabbriche, supply chain o marginalità.
Parla di cheerleader.

1. L’intuizione

La Teoria delle Cheerleader parte da una semplice osservazione:

> In ogni ecosistema economico complesso, esiste una categoria di attori che non produce valore diretto, ma crea le condizioni affinché il valore si esprima, si moltiplichi e venga riconosciuto.

Le cheerleader economiche non scrivono codice, non brevettano molecole, non costruiscono infrastrutture.
Ma fanno qualcosa di altrettanto importante: focalizzano l’attenzione.
Creano attesa.
Accendono desiderio.
Producono narrazione.
E soprattutto: fanno sentire tutti dentro un gioco vincente.



2. La legge dell’entusiasmo

Il valore oggi è funzione di quanto entusiasmo sei in grado di generare, non solo di quanto utile produci.
E l’entusiasmo ha dinamiche precise:

È contagioso, come un virus.

È volatile, come un titolo tech.

È costoso da generare, ma altamente redditizio se ben monetizzato.

Il cheer non è un corollario del business.
È il business.



3. Le tre funzioni delle cheerleader economiche

a. Attrarre attenzione

Come le cheerleader aprono la partita prima ancora che il gioco cominci, così le aziende e i marchi devono farsi notare ben prima del “prodotto”.
Un buon lancio è spesso più importante del contenuto stesso.
Nel B2B come nel fashion.

b. Creare contesto

Un computer vale mille euro.
Ma un computer con la mela sopra, accompagnato da Keynote, rumors, leak e fila all’Apple Store… ne vale duemila.
Le cheerleader cambiano la percezione.
E la percezione è il nuovo capitale.

c. Stimolare coinvolgimento

L’utente, il cliente, l’azionista devono tifare.
Sentirsi parte.
Sostenere pubblicamente.
Le cheerleader convertono il consumatore in fan, e il fan in testimonial gratuito.
Il cheer è un moltiplicatore di valore non contabilizzato.



4. La finestra di appeal

L’entusiasmo, però, ha una scadenza.
Come le performance sul campo, anche l’appeal mediatico e narrativo ha una finestra temporale.
Una stagione. Due, se sei bravo.
Tre, se diventi leggenda.

Ecco il punto critico della Teoria:

> Le aziende cheerleader devono monetizzare in quella finestra.
Perché dopo, potranno solo vivere di rendita, imitarsi, difendere una rendita di posizione o – più semplicemente – diventare noiose.

Due esempi illustri:

Apple: ha smesso di innovare radicalmente da tempo, ma continua a estrarre valore dall’effetto cheerleader costruito tra il 2001 (iPod) e il 2014 (Watch). Tutto il resto è ottimizzazione.

Microsoft: dopo la botta d’orgoglio con Xbox e Azure, oggi vive di una rendita di predominio infrastrutturale e abbonamenti imposti. Nessun entusiasmo, ma tanta posizione dominante.

Sono due esempi di cheerleader divenute matriarche.
Non saltano più, ma dettano il ritmo a chi corre.

5. Implicazioni sistemiche

a. Nella startup economy

Le presentazioni contano più del prodotto.
Il pitch vale più del codice.
Il carisma del founder più del business plan.

b. Nel lavoro

I migliori non sono sempre quelli che fanno.
Ma quelli che fanno fare agli altri, ispirando, trainando, parlando bene al momento giusto.

c. Nella politica

Le cheerleader non stanno solo nei partiti.
Stanno nei think tank, nei social media manager, negli spin doctor, nei movimenti di opinione pre-confezionati.

6. Rischi e patologie

La cheerconomy ha effetti collaterali:

Hype tossico: progetti sopravvalutati che crollano appena si spegne la musica (vedi Theranos, FTX).

Sovrainvestimento emotivo: consumatori che si identificano con brand come se fossero squadre di calcio.

Disconnessione dalla realtà: prodotti inutili celebrati da community accecate (NFT, AI inutili, abbonamenti immotivati).

7. Le cheerleader stanche

Ogni sistema che vive di entusiasmo costante produce esaurimento.
Chi crea hype, a un certo punto, non ce la fa più.
Burnout di founder, di content creator, di brand ambassador.
Il cheer è energia, ma anche logorio.
Come in ogni squadra, a un certo punto le cheerleader si fanno da parte.
Ma se nessuno prende il loro posto, lo show si spegne.

.7 Il cheer nella carriera personale

La Teoria delle Cheerleader non vale solo per le aziende, ma anche per le persone.

Nel mercato del lavoro contemporaneo, la competenza è necessaria, ma raramente è sufficiente.
Ciò che distingue un “tecnico bravo” da un “talento in ascesa” è spesso la capacità di generare entusiasmo intorno a sé.

Parliamo di persone che:

raccontano bene ciò che fanno,

attirano consenso nei team,

trasformano la visibilità in reputazione.

Chi ha successo non è sempre il più competente, ma spesso il più trainante. Chi sa “fare cheer” – anche senza danzare – costruisce consenso, aggrega valore, fa salire la temperatura emotiva intorno al proprio nome.

Il personal branding, se vogliamo semplificare, è la versione individuale del cheer.
E come per le aziende, anche qui esiste una finestra: una fase della vita in cui si ha appeal professionale, carisma comunicativo e una storia interessante da raccontare.
Va monetizzata, capitalizzata, nutrita con relazioni.

Poi si vive di rendita.
Oppure si cambia gioco.
O, come accade ai migliori, si diventa allenatori di cheerleader.

Conclusione

La Teoria delle Cheerleader non è un vezzo retorico.
È una chiave di lettura potente del capitalismo contemporaneo, dove:

l’attenzione vale più della materia prima,

la narrativa batte la tecnica,

e l’entusiasmo ben incanalato è il miglior capitale di sempre.

Non tutti sanno creare entusiasmo.
Ma chi ci riesce, per un momento, vale quanto mille ingegneri.

E chi riesce a monetizzare quell’entusiasmo prima che svanisca, può permettersi di smettere di correre, e vivere di rendita.
Finché arriva il prossimo che sa saltare più in alto, con un sorriso più largo, e i pompon più scintillanti.

I peggiori biz in Italia

Facile entrare, facile fallire

I peggiori biz in cui infilarsi

Questa lista evidenzia tendenze di mercato e sfide strutturali che molti settori in Italia devono affrontare.

Non è una condanna assoluta per ogni attività, ma di un monito a non sottovalutare la complessità e la competitività del panorama.

Per avere successo in questi o in altri settori, è fondamentale condurre un’approfondita analisi di mercato, elaborare un business plan solido, considerare attentamente i costi e i margini, e soprattutto, trovare una proposta di valore unica e differenziante.

  1. Ristorazione (bar, ristoranti, pizzerie)
    Perché è difficile: saturazione totale, concorrenza spietata, margini bassi, orari massacranti.
    Tipico errore: “Apro un baretto carino…” — muori sotto tasse e INPS.
    In numeri: 1 su 2 chiude entro 3 anni.
  2. Turismo stagionale (B&B, agriturismi, case vacanze)
    Perché è un’illusione: tutti credono che basti affittare camere, ma ci vogliono servizi, manutenzione, e marketing.
    Problema: stagionalità estrema, concorrenza Airbnb, burocrazia e tasse locali.
    In più: zone interne e Sud spesso isolate dai flussi veri.
  3. Abbigliamento e accessori (negozietti fashion, mercerie, boutique)
    Perché è morto: Amazon, Shein, Zara, outlet.
    Falso mito: “Ma io ho gusto!” — Il cliente medio vuole prezzo e reso.
    Risultato: negozio vuoto, magazzino pieno, e svendi tutto in saldo.
  4. Edicola e cartoleria
    Fine di un’epoca: lettori in calo, editoria in crisi, giochi e francobolli spariti.
    Chi resta: solo se integrato con servizi (tabacchi, ricariche, etc.).
    Curiosità: molte sono state convertite in micro uffici postali privati.
  5. Negozi di telefonia e elettronica “multi-brand”
    Perché no: i margini sono tutti delle grandi catene.
    Chi compra da te? Tutti online, oppure da Unieuro/Mediaworld.
    In più: i brand ti scaricano i costi di esposizione e assistenza.
  6. Lavanderie tradizionali
    Costi fissi troppo alti, e la domanda cala: sempre meno abiti “da lavaggio”, e pochi clienti abituali.
    Concorrenza killer: lavanderie automatiche H24 (più economiche).
    Eccezione: zone ad alta densità o clientela alto-spendente.
  7. Tabaccherie (per nuovi ingressi)
    Paradosso: regge solo se hai già la licenza (che vale oro), ma come nuovo entrante paghi cifre folli per subentro.
    In più: guadagni veri solo da Lotto, Gratta & Vinci, e servizi accessori.
    Tendenza: calo del fumo + criminalità interessata = rischio alto.
  8. Librerie indipendenti
    Un sogno per pochi: margini bassi, concorrenza online totale.
    Clientela in calo: il lettore forte compra su Amazon o nei megastore.
    Funziona solo: se sei uno spazio culturale/eventistico oltre che shop.
  9. Parrucchieri ed estetica “generalista”
    Saturazione assurda in città e paesi.
    Prezzi bloccati, concorrenza selvaggia, clienti infedeli.
    Sopravvivono: solo chi si specializza (curly hair, bio, trattamenti top).
  10. Franchising-farsa (gelati, bubble tea, panini gourmet, ecc.)
    Boom & bust: attraggono giovani con “pacchetto chiavi in mano”, poi li spremono.
    Problemi: fee elevate, royalty fisse, dipendenza dal franchisor.
    Risultato: dopo 2 anni chiudi con debiti e zero know-how reale.

Bonus:
Impiantistica e servizi edili: buoni margini teorici, ma tempistiche lunghe, crediti non riscossi, rischio insolvenza del committente e concorrenza sleale (imprese estere, in nero).

Startup digitali “senza cassa”: ottime idee, ma zero accesso a VC e banche = morte rapida.

I settori con bassa barriera all’ingresso attirano troppa gente, senza capitale né strategia, mentre quelli ad alto potenziale sono opachi o bloccati da barriere relazionali, regolamentari o clientelari.

Salari di fame

Quasi 6 milioni di lavoratori guadagnano meno di €11 mila lordi all’anno

Meno di €850 netti al mese.

E 2 milioni fino a €17 mila/anno

Circa 1.200 netti al mese.

Le classi dirigenti (nonché quelle parassitarie estrattive di ricchezza dalla società) vogliono farvi credere che il problema sono tasse e contributi, ma la verità è che gli stipendi sono bassi, molto bassi.

Perché la maggior parte delle imprese non è in grado di produrre abbastanza valore.

Quindi é un problema strutturale non risolvibile

Tassare di più i ricchi: funziona?

300 milionari lo vogliono per sanare le disuguaglianze

Fra i 300 milionari, c’è anche Abigail Disney – che siede su $110 milioni – insieme ad altri 299 che, come immaginerete, non hanno forzieri pieni di dollaroni dove tuffarsi come Zio Paperone.

Sicuramente, la loro ricchezza è in strumenti finanziari e immobili, che rendono ed accrescono la loro ricchezza, e quindi, siccome saranno azionisti e/o parte dei CdA delle aziende, perché – molto più semplicemente – non chiedono ai loro dirigenti di aumentare i salari – anche se questo farà diminuire i loro dividendi?

In fondo, come dimostra la battaglia sindacale contro UPS, le aziende, se costrette, i soldi li hanno per alzare i salari. Perché gli attuali salari sono solo il frutto di una guerra (antisindacale, condotta con l’uso dei media) che i ricchi hanno fatto contro i poveri e la stanno vincendo, come ha detto Warren Buffett:

“There’s class warfare, all right, but it’s my class, the rich class, that’s making war, and we’re winning.”

Ma mettiamo pure che i governi si decidano a tassare di più i ricchi, sarebbe una soluzione per alleviare i problemi dovuti alla disuguaglianza economica?

Forse si, forse no. Perché tassare significherebbe far passare i soldi dalle tasche dei ricchi nelle mani dei politici e dei loro reggicoda, che tendono anche loro a diventare ricchi (avete mai visto un politicante povero?) e poi hanno idee non attuali, né funzionali, per alleviare i problemi dei non ricchi.

Ipotizziamo la distribuzione di denari – sic et simpliciter – quello che si chiama UBI (Universal Basic Income) cioè un’elargizione a tutti di un reddito minimo. Che è una misura auspicata già dal governo Nixon per alleviare la povertà negli Stati Uniti.

Gli esperimenti dicono che funziona, ma scatena l’ira dei non-ricchi contro i poveri, come abbiamo visto con il RdC: il borghese piccolo piccolo odia i poveri, perché pensa che abbiano voluto diventare poveri per indolenza o perché geneticamente predisposti al parassitismo.

Tassare i ricchi per sostenere gli UBS (Universal Basic Services) cioè servizi di utilità di base che servono a noi tutti? Cioè dare a tutti istruzione gratuita (ma veramente gratuita, compresa quella universitaria), non far pagare le utility (acqua, luce e TLC), non far pagare il Trasporto Pubblico Locale (TPL), sanità per tutti (ma veramente gratis), l’abitazione, la cura di bambini ed anziani ed anche i servizi legali?

Potrebbe funzionare, perché molti di questi servizi sono già semi-gratuiti, tutti sono abituati a riceverli, senza scatenare odio di classe fra i non-ricchi ed i poveri.

Il problema è il come: perché sicuramente la politica allatta pesantemente sulla spesa pubblica, creando diseconomie, burocrazia e ritardi.

Forse sarebbe meglio che gli stessi milionari si occupassero di fornire, per intanto gli UBS, visto che essendo del settore privato possono fare con organizzazione, tecnologie e metodi efficienti ed efficaci come nessuno sa fare.

Possono comprare le aziende che erogano questi tipi di servizi e fornirli gratuitamente.






4 giorni di lavoro, pari stipendio

Il governo sposa l’idea della settimana corta

La notizia arriva dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy, quello retto da Adolfo Urso, che avrebbe sposato l’idea del segretario della Cgil, Maurizio Landini.

Un provvidimento che avrebbe un grande impatto sull’organizzazione delle aziende, già costrette a ripensare i tempi del lavoro causa smart working, home working e tante nuove forme di gestione dei lavoratori e soprattutto dei processi.

L’esperimento condotto in UK, ha dimostrato che la produttività non solo non cala, ma ci sono aumenti dovuti alla maggiore efficienza ed efficacia del nuovo modo di organizzarsi.

Ma un grande impatto lo avrà anche sull’ecologia, eliminando una giornata intera di traffico, di pendolarismo, di stress delle strutture e delle persone.

Sono infatti le persone che avranno i maggiori benefici, con un migliore equilibrio vita – lavoro.

D’altra parte, l’accelerazione in automazione, che oggi può impennarsi grazie alle AI, non richiede più un lavoro di tipo fordistico (anche fra i colletti bianchi) ma un lavoro per obiettivi.