Sono andato in visita ad amici in Liguria, zona che conosco poco, mai fermatomi oltre Genova, e sempre attraversata di corsa per andare in vacanza a Saint Tropez e quando lavoravo a Sophia Antipolis per Société Genérale, sulle colline della Costa Azzurra.
Una regione che non m’attira, nonostante i media milanesi, (cioè tutti i media), ne abbiano sempre esaltata la bellezza. Sarà perché venendo dalla Campania, quelle spiagge strette e nere, schiacciate fra un’Aurelia puzzolente di traffico e una ferrovia degradata che la costeggia, non c’è proprio paragone con le grandi spiagge dorate delle coste campane o con gli scenari di favola della Costiera Sorrentina, per non parlare dell’inebriante sensualità sontuosa di Ischia e Capri.
I miei amici abitano in una frazione di collina, quattro chilometri dal mare, dopo una salita contorta e tortuosa, in uno scenario di solitudine che ben si presterebbe a trovare un buco dove torturare in pace qualche FDP senza che le grida per le unghie strappate e il waterboarding, CIA style, suscitino un moto di curiosità dei pochi vecchi che vi ci abitano.
La loro è una casa di campagna, anche se la campagna non c’è, ricoperta da anni della scorza di seconde case dei milanesi che qui giungono a frotte e in massa nell’illusione che un fine settimana, passato in gran parte a respirare i gas di scarico delle auto incolonnate da Assago a Ventimiglia, possa esorcizzare l’inevitabile collasso dei loro polmoni inquinati sotto le polveri sottili delle migliaia d’impianti di riscaldamento accessi, da ottobre ad aprile, senza soluzione di continuità, impianti che i sindaci ben si guardano di nominare quando puntano comodi il dito sul traffico automobilistico che poi, loro stessi, con migliaia d’inutili semafori contribuiscono a creare.
I miei amici hanno una casa minuscola, carina, e di fronte, residuato di chissà quali spartizioni ereditarie, oltre la stretta strada, quello che loro chiamano un giardino, cioè un triangolo di terra dove s’erge solitario un ciliegio, più fonte di casini che occasione di rimirare il po’ di bellezza che potrebbe spandere.
Infatti, il loro inquilino, fattosi prestare da loro pure la scala, ritiene che i frutti del ciliegio siano res nullius, e quindi, tenendo fede al più bieco pregiudizio contro gli slavi, si fa sontuose scorpacciate di ciliegie altrui alla faccia dei poveri legittimi proprietari.
Un fatterello che sembra un’immagine meravigliosamente concentrata delle realtà italica, dove il triangolo di terra, che pomposamente i miei amici chiamano giardino, potrebbe essere il posto di lavoro nella P.A. o in un’impresa di questa parassitaria, o il piccolo commercio, o la pensione sociale e d’invalidità, più o meno legittimamente intascate, tutte cose che la crisi e i cambiamenti tecnologici incombenti stanno per modificare in modo totalmente inconcepibile, in altri tempi, quando il cambiamento poteva essere digerito, mentre oggi è così rapido e devastante che neppure qualche sparuto intellettuale dei nostri riesce a capirne vastità e portata.
E il ciliegio, con i suoi frutti non goduti, mi sembra la speranza vana per un futuro fruttifero per i figli, che non ci può essere più, perché altri, in altri posti del mondo, godranno del cambiamento, mentre da noi, quei pochi che rimarranno, dovranno fare da affittacamere e camerieri per ricchi e benestanti di altri paesi, quelli che non hanno mai creduto che il mondo fosse tutto in un triangolino d’erba ben pettinata, ma nella vastità di progetti ampi e maestosi che hanno bisogno di grandi menti e grandi idee, cose entrambe che mancano del tutto alla ridicola classe dirigente italica (nessuno escluso) che crede di essere moderna quand’è ancora abbarbicata a quattro sassi, aridi e infruttiferi, come le loro menti irrancidite.