Non parlo mai di politica italiana. Non è interessante, e i politici sono tutti abbastanza squallidi e impreparati.
Quindi, questa non è una difesa del governo in carica, che è più o meno come gli altri precedenti: incompetenza, nessun progetto, e nessuna idea di cosa accade nel paese e nel mondo.
Ciò premesso, non mi pare che la bella frenata dell’industria di questi giorni si possa imputare al governo attuale, che poco fa e poco incide sul’economia, se non continuando a seminare paura fra chi dovrebbe spendere e investire.
Ma questo lo hanno fatto anche i governi precedenti, dallo scoppio della crisi globale.
I problemi dell’industria italiana sono strutturali: aziende individuali e individualistiche, affette perciò da nanismo dimensionale, finanziario e commerciale.
E siccome dipende da una base antropologica (paura dell’altro e del futuro, ricerca ossessiva delle sicurezza), c’è poco da sperare nei singoli imprenditori, e l’unica mossa per smuovere il pantano sarebbe che lo Stato attivasse delle iniziative (che non siano la solita cementificazione) per avviare un meccanismo positivo di generazione di ricerca, know-how e brevetti per produrre prodotti e servizi ad alto valore aggiunto.
Perché le cose a basso valore aggiunto le possono fare tutti, in Europa e nel mondo.
Ma siccome manca anche una classe dirigente, cioè una entità coesa che vive nello stesso posto e condivide la stessa preparazione e cultura, manca da sempre qualcuno sul ponte di comando, né più né meno come al tempo delle signorie, dei comuni, dei principati e delle città stato: tante bande locali che agiscono solo per il proprio tornaconto personale e familiare.
Prendersela con gli attuali manovratori (fra cui 2 che non sono neppure laureati) è buttare la croce addosso al primo cireneo che passa dalle parti di Palazzo Chigi, mentre il problema è generato dall’intera popolazione che non si rende contro e, seppure se ne rendesse conto, non vuole cambiare.